Corso di Laurea magistrale in Lingue, economie e istituzioni dell'asia e dell'africa mediterranea Ordinamento ex D.M. 270/2004 Tesi di Laurea Gli inve

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1 Corso di Laurea magistrale in Lingue, economie e istituzioni dell'asia e dell'africa mediterranea Ordinamento ex D.M. 270/2004 Tesi di Laurea Gli investimenti cinesi in Africa con particolare riferimento al campo petrolifero e al relativo repertorio terminografico Relatore Ch.ma Prof.ssa Magda Abbiati Correlatore Ch. Prof. Franco Gatti Laureanda Elisa Monte Matricola Anno Accademico 2017 / 2018

2 Alla mia famiglia

3 Indice 前言 5 Introduzione 9 PARTE PRIMA Capitolo I: Gli investimenti cinesi in Africa Le relazioni sino-africane a partire dagli anni Cinquanta I primi rapporti e la conferenza di Bandung Gli anni Sessanta-Settanta e il rafforzamento delle relazioni L'epoca di Deng e delle riforme Un nuovo istituto per i rapporti sino-africani: il Forum on China-Africa cooperation Il 2006: l'anno della Cina in Africa Conferma della presenza cinese nel continente nero: il progetto One Belt One Road Le risorse naturali del continente africano La penetrazione economica cinese nel mercato africano I settori di investimento e la situazione import-export Gli aiuti cinesi in Africa 30 Capitolo II: La produzione petrolifera cinese e lo sfruttamento delle risorse africane Il petrolio cinese Le tre principali compagnie petrolifere cinesi Il fenomeno dei teapot Il petroyuan Gli interessi petroliferi cinesi in Africa L'Angola e il modello Angola Il caso del Sudan e la guerra del Darfur Il terzo grande esportatore: la Nigeria 50

4 Capitolo III: L'estrazione e la lavorazione del petrolio La fase di estrazione La fase di raffinazione I prodotti derivati 62 PARTE SECONDA Schede terminografiche 65 Glossario cinese-italiano 97 Glossario italiano-cinese 100 Bibliografia 103

5 前言 一方面有中国, 另一方面有非洲, 中间有石油 这三个题目的关系是本论文的主题 这篇论文由两个部分组成, 第一个部分跟中非贸易历史 中非石油贸易与石油开采和炼制过 程有关系, 第二个部分的对象是通过意大利语和汉语定义显示一些石油术语的语义等价 第一个部分由三个章分隔 首先我分析中非关系的历史 在 1955 年那时候的中华人民共和国国务院总理周恩来参加了万隆会议, 第一次亚洲和非洲召开议会, 为了抵制参加国际冷战与促进国家之间的经济交流, 而在这种情况下周总理抓住跟非洲国家成立贸易与政治合作关系的时机 此外, 周恩来的重要目标是让非洲国家领导们把新成立的中华人民共和国承认合法地位查实着他们不与台湾结盟 本关系按照团结 友谊 合作 共赢合作和平共处的原则被建立了 在 2000 年中非合作进了一步, 即成立了中非合作论坛, 就是说每三年中国总统与非洲国家总统们聚集而加强友谊, 促进南南合作 平常在这场会议上, 中国总统给几个非洲国家贷款帮助它们的经济发展或者还清债务 目前中华还认为非洲是一个很重要的朋友, 事实上阿非利加洲代表中国海上丝绸之路计划的一个不可缺少的成分因为它是一带一路巨大计划的自然继续 这个章还加深中国用什么战略进入非洲市场 为了达到这个目的, 中华政治人物选择一种跟西方国家根本不一样的战略 他们的策略不以民主与人道主义为主, 反而就给予物质的帮助, 例如贷款建设基础设施或者跟非洲人一起工作进行进入的政策 这样作, 非洲国家对中国援助非常高兴, 而跟它深化合作关系, 让中国变成非洲最大的贸易伙伴之一, 尽管中国进口总额比出口总额高得多 最重要的进口产品是矿藏, 即石油 金 铁 铜 钻石等 最后, 我分析中国帮助的结果, 它们是否有益的 对于这个问题有不同的看法, 有的觉得中国帮助的最后目标是开发资源, 有的觉得中国在非洲正在建设的基础设施会提高本地经济与生活水平给它发展的机会 中国石油市场是第二个章的题 这个章开始介绍中华国家内的三片主要油田, 虽然它们的原油产量比较大, 可是它不满足国内市场的需要 中华是一个发展中的国家, 随着它的经济发展, 需要石油量越来越大让它从其他国家进口本原料 然后就中国海洋石油 中国石油天然气集团与中国石化这三个最大最重要国有石油企业进行介绍, 还分析茶壶现象, 即小 5

6 独立石油生产者, 然后关于用人民币相反美元买卖石油期货的政府决定谈一谈 后来, 把几 个中国有石油利益的非洲国家编造成一览表, 特别是安哥拉 苏丹和尼日利亚的最主要石油 贸易伙伴 所以, 以后我加深这三个有很大困难的非洲国家跟中国建立贸易关系历史的了解 然后, 第三个章的对象是原油开采与炼制 原油是从地下油藏里面开采的 可以用于几种方法开采石油, 其中今天常用的是冲击回转钻探因为又便宜又快也是一种在陆上或者海上可以用的钻探方法 石油开采以后, 用管道 油罐车 油船等把它运输到炼厂 炼厂内通过蒸馏操作把原油变成馏分, 每个馏分有自己的沸点, 根据沸点可以得到不同石油产品, 例如炼厂气 煤油 柴油 汽油 重质油等 这个过程叫分馏而在分馏塔内进行的 重质油可以用真空蒸馏再蒸馏 这三个句子包括一些石油术语 在第三个章内有七十五石油范畴术语, 用黑体突出它们, 也把它们翻译成汉语 第二个部包括术语分析与两篇词汇表 术语分析的目标是通过意大利语定义与汉语定 义比较显示词语的语义等价 然后有把这些词按照拼音顺序排列的一篇汉意词汇表与一篇按 照字母顺序排列的意汉词汇表 对我来说, 本论文的题目是非常重要与有意思的 石油是目前社会主要原料, 我们生活非用原油炼制产品不可 其实, 每天我们都需要穿衣服 需要把我们的汽车或者摩托车加油 需要路为了到达目的地 需要医药, 这些产品什么都是由石油生产的 然而, 石油是一种可耗尽的资源也有一些专家认为现在发现的油田还可以满足四五十年的市场石油需要, 然后本原料会渐渐耗尽而需要等百万年才自然能形成了别的原油 随着这些因素, 人们以为石油的重要性极大了, 以为它是珍贵的必需品, 因此在地下没有本原料的国家利用各种各样的方法为了自己保证不断的原油进口总额而支持自己经济与社会 此外, 有的国家准备迎接一切困难以得到原油供应, 它们也会参战或者激发已经现存的战争 这就是苏丹的例子 苏丹是一个石油极丰富的共和国, 因之它的历史都有国内战争 有关北苏丹与南苏丹最主要内战的理由是治理一块原油丰富的领土 在这些情况下, 外国进入本地市场而它们禁不住参战, 可是它们的目标不是帮助结束战, 却是与一个队形结盟, 然后给他提供武装而获得石油特许权 可以说石油是今日社会的最重要资源之一, 是经济的引擎, 是不可缺少的原料而是两个国家合作关系的基础 这些都是我选择原油题目集中注意力的理由 6

7 分析中非合作关系的历史也特别有趣 我选择本题目因为一年前我在一份报纸上阅读一篇就中国在非洲有很多不同投资计划的文稿 它让我好奇, 我跟一些朋友说一说, 但是他们也不知道中国对阿非利加洲那么感兴趣, 所以我决定了把这个题目加深我的了解 根据本新闻内容好像中国对全部非洲国家实行统治而中国人的行为像殖民主义者似的 记者写了在许多非洲国家中华人民共和国投资那么巨大的金额, 华公司的各种各样工业部门的投资像全球国家的一样大, 可是通过这项研究我发现中国投资总额量比其他国家的小得多, 事实上, 中国投资数量只占国际投资总额量的百分之三 然而记者看法不是错的, 中国人投资像比较大因为他们晚近开始投资与这些年的中国企业的投资比这些年的国际企业的投资大一点儿 随着这项研究我发觉非洲跟中华没有那么不同的, 这两个国家都受到欧洲国家殖民主义, 它们都从很穷的情况下开始发展 中华人民共和国是发展中的国家, 非洲国家总统对它的难以置信经济增长特别感兴趣, 因为以前中国人民生活情况比非洲人一样的, 所以他们以为超越着它的行为与给予着它的帮助阿非利加洲也可以达到发展目标 非洲的发展却比较难因为在国内有重大政治腐败问题, 此外还有许多国家来非洲是为了开发地下资源而不注意自然不给予非洲国家经济或社会协助 我喜欢写全部的论文, 可是第一章是我最喜欢做的部分, 理由是我觉得历史很有意思, 让人理解一个民族的想法 特性与行为 特别有趣的题也是 为了进入非洲市场中国政治人物比欧洲人选择的战略的区别, 它真的反映民族想法 本章还介绍非洲人对中国帮助有什么印象, 有的非常高兴, 要吸引中国投资, 有的想它只增加本地政府腐败 这个问题是一种国际上谈谈的题目, 欧洲国家批评中国在非洲用于的方法, 向中国提出新殖民主义的控告 许多国家以为中国给非洲国家的经济援助是为了它需要非洲大陆的资源, 它不是阿非利加洲真的朋友, 它的目标不是互利共赢, 它对互利经济发展不太感兴趣 这些考虑还可以是真的, 可是这些国家向自己问一问到底它们的最后目的是什么? 真的是阿非利加洲大陆的经济发展还是它们只要保证自己不断的资源开发? 对我来说最难做的部分是找到汉语和意大利语一样的术语定义, 因为通常找到意大 利语定义的内容与汉语的有区别或者一种语言的释义主要方面比其他语言不一样, 比如意大 利语定义加深一种特征但是在汉语定义内这种特征只短短提起 7

8 我写本论文的另一目标是让朋友们与对这个题有感兴趣的人了解非洲共和国的情况, 非洲历史, 中国历史而比较中非合作关系结构与非欧洲国家合作的结构强调着中国与欧洲国家的行为区别, 让读者造成自己的看法而发现如何两个地质地 文化地不同的非洲与中华人民共和国国家开始一个由全球兴趣的贸易合作 8

9 Introduzione La Cina è il più grande paese in via di sviluppo del mondo, l'africa è il continente con il maggior numero di paesi in via di sviluppo. Questa la frase pronunciata dall'allora presidente della Repubblica Popolare cinese (RPC) Jiang Zemin, nel discorso di apertura della prima conferenza del Forum on China-Africa Cooperation, tenutasi a Pechino nel Ho riportato questa citazione come incipit del mio lavoro di tesi in quanto mi ha colpita particolarmente. Essa presuppone infatti che Cina e Africa siano a un livello di parità, esalta il ruolo positivo che ciascuno dei due paesi ha nello sviluppo globale e unisce due stati che, secondo l'immaginario collettivo dei paesi europei, non hanno nulla da spartire: la Repubblica Popolare, nel pieno della sua espansione economica che la porterà a diventare una delle principali potenze mondiali, e l'africa, continente in cui ogni stato cerca di svilupparsi e possiede tutti i mezzi per farlo, ma che spesso viene ostacolato sia a livello locale, a causa della corruzione politica, sia dall'esterno, in quanto molti paesi esteri sono interessati a sfruttare le risorse che essa offre in abbondanza, senza però apportare benefici in cambio. Sembra inoltre, che utilizzando questa frase, Jiang voglia sottolineare il grande progresso che la Cina sta portando avanti e che l'africa non è inferiore, anzi, unendosi e aiutandosi reciprocamente questi due paesi potrebbero raggiungere il livello delle grandi potenze occidentali. I governatori africani hanno visto fin da subito nel percorso di sviluppo cinese da paese del terzo mondo a seconda potenza economica mondiale, un modello da seguire ed emulare per poter realizzare una propria ascesa economica. È anche per tale ragione che, nel 1956 vennero avviati i primi rapporti sino-africani, nei quali i due protagonisti si trattavano come pari e instaurarono una collaborazione vincente-vincente, che mirava alla crescita comune e parallela dei due paesi. Dati questi presupposti, mi sono sorte alcune domande: per quali motivi la Cina è riuscita a diventare l'attuale potenza, mentre l'africa è rimasta un continente caratterizzato da guerre continue e povertà? Com'è proseguita la collaborazione sino-africana negli anni? Quali sono stati e quali sono oggigiorno i rapporti commerciali tra le due popolazioni? Perché, come sostengono numerosi giornalisti, il continente nero sta diventando sempre di più una colonia della RPC? Il primo capitolo fornisce le risposte a tali domande analizzando sia la parte storica delle relazioni sino-africane, sia la parte economica relativa agli scambi commerciali tra i due paesi. Il primo paragrafo ripercorre gli avvenimenti a partire dagli anni Cinquanta, quando si svolse la conferenza di Bandung, un evento importante che segnò l'avvicinamento della Cina all'africa, fino ai giorni 9

10 nostri con l'iniziativa One Belt One Road nell'ambito della quale il continente nero occupa una posizione di rilevanza strategica. Successivamente, si propone una panoramica delle risorse naturali africane che rendono il territorio tanto prezioso agli occhi di tutto il mondo, dopodiché, ci si concentra sulla strategia di penetrazione economica cinese nel mercato africano e di come essa si distingue da quella dei paesi Occidentali. Quest'ultima si basa sul colonialismo e sull'imposizione dei propri valori etici e sociali, mentre la strategia sinica propone una cooperazione basata sui cinque principi di coesistenza pacifica, tra i quali vengono continuamente ripetuti e applicati il principio di non ingerenza nel sistema governativo altrui e l'idea di una cooperazione vincentevincente. Infine, si analizzano i settori nei quali la Repubblica Popolare investe in maggior quantità, l'entità degli scambi commerciali e si esaminano le conseguenze degli aiuti cinesi sul continente nero. Dopo aver approfondito i settori di investimento cinesi in Africa, ho deciso di concentrare il mio lavoro sull'ambito petrolifero, in quanto nel mondo attuale il petrolio è una risorsa fondamentale per lo sviluppo dei paesi e i prodotti derivati dalla sua lavorazione sono indispensabili nella vita di tutti i giorni, basti pensare alla benzina piuttosto che alle materie plastiche, tuttavia, purtroppo il greggio è una materia prima non rinnovabile e secondo molti esperti potrebbe esaurirsi nel giro di quaranta o cinquanta anni. Il secondo capitolo ha dunque come oggetto il mercato petrolifero ed è suddiviso in due paragrafi. Il primo riguarda la produzione petrolifera cinese, fornendo una breve panoramica delle maggiori riserve di oro nero presenti nel paese, analizzando il ruolo e l'importanza delle tre principali compagnie petrolifere statali e descrivendo il fenomeno dei teapot, vale a dire delle piccole raffinerie indipendenti nate qualche anno fa, che si sono ingrandite sempre più fino a occupare un ruolo di particolare rilievo nell'importazione di greggio in Cina. Si menziona inoltre, un secondo fenomeno molto recente, il petroyuan, grazie al quale la RPC punta a internazionalizzare lo yuan e a commerciare direttamente usando la propria valuta evitando il passaggio al dollaro. Il secondo paragrafo è dedicato agli interessi petroliferi sinici nel continente nero e di come la Cina abbia instaurato rapporti con Angola, Sudan e Nigeria, ovvero i tre principali esportatori di petrolio africani, e quale sia stato il suo ruolo nei difficili contesti storici dei vari stati. Il terzo capitolo verte sull'aspetto tecnico dei processi di estrazione e lavorazione del greggio. Si analizza in primo luogo la fase estrattiva sulla terraferma e in mare aperto e secondariamente la fase di raffinazione di tale materia prima. Da ultimo si propone una sintesi dei principali prodotti derivati dalla lavorazione del greggio. All'interno di questo capitolo sono presenti dei termini specialistici 10

11 evidenziati in grassetto e affiancati dalla traduzione in cinese e costituiranno il corpo delle schede terminografiche. Tali termini sono dunque l'oggetto delle schede terminografiche, il cui fine è dimostrare l'equivalenza semantica del medesimo concetto in italiano e in cinese paragonando le due definizioni nelle due diverse lingue. Esse, insieme a un glossario cinese-italiano e un glossario italiano-cinese, compongono la seconda parte del lavoro di tesi. Questi glossari contengono il lessico tecnico presente nelle schede e sono organizzati in ordine alfabetico per pinyin, per quanto riguarda il glossario cinese-italiano, e in ordine alfabetico per quanto riguarda il glossario italianocinese. 11

12 PARTE PRIMA Capitolo I, capitolo II, capitolo III

13 CAPITOLO I GLI INVESTIMENTI CINESI IN AFRICA 1. Le relazioni sino-africane a partire dagli anni Cinquanta 1.1 I primi rapporti e la conferenza di Bandung Il continente africano e il continente asiatico seppur distanti geograficamente non hanno potuto fare a meno di entrare in contatto e ciò accadde per la prima volta durante la dinastia Tang. Tuttavia l'incontro più significativo, che viene spesso, e ancora oggi, ricordato nei discorsi ufficiali cinesi riguardanti le relazioni sino-africane, viene fatto risalire all'epoca della dinastia Ming, quando nel 1415 l'esploratore e navigatore Zheng He raggiunse la costa orientale africana. Successivamente, cambi di potere al vertice portarono a nuove politiche che causarono la demolizione della marina imperiale qualche anno dopo il successo di Zheng He, e dal 1435, periodo durante il quale furono i ministri confuciani a gestire il potere, a una nuova fase di isolamento diplomatico, che portò alla chiusura delle porte dell'impero per cinque secoli. Inoltre il mutare dei tempi portò anche nuovi e svariati interessi economici. Il concatenarsi di tutti questi avvenimenti portò la Cina a distogliere l'attenzione dal continente nero (Michel e Beuret 2009, pp ). Fu un importante evento storico a far avvicinare nuovamente la Cina e l'africa: la guerra fredda. Durante questo confronto mondiale, entrambi i paesi scelsero di non schierarsi né a favore degli americani, né a favore dei sovietici, ma di rimanere neutrali, prendendo parte al movimento dei paesi non allineati. Dal 18 al 24 aprile 1955 si tenne a Bandung, in Indonesia, la Conferenza di Bandung alla quale parteciparono in totale 29 paesi sia asiatici che africani, con lo scopo di rifiutare la logica delle alleanze militari; resistere al cambiamento storico che stava portando a un mondo dominato da due grandi potenze ideologicamente opposte, America e Unione Sovietica; tutelare la pace; riuscire ad arrivare a una futura collaborazione tra nazioni eguali e, a tal proposito, altri temi trattati durante i vari incontri furono appunto i problemi legati al processo di decolonizzazione; la lotta contro la povertà, le miserie e le arretratezze (Samarani 2010, p. 22). Il primo ministro cinese, Zhou Enlai, sapeva bene che, in quanto paese comunista, affinché la Cina fosse accettata dagli altri partecipanti alla conferenza, doveva darne un'immagine che fosse il più possibile simile a quella degli altri stati presenti, perciò nel presentarla enfatizzò come la Cina avesse anch'essa sofferto, combattuto e sconfitto il colonialismo. Inoltre, Zhou decise di arricchire la sua strategia rifacendosi ai Cinque Principi di Coesistenza Pacifica, entrati in vigore l'anno precedente per regolare i rapporti tra India e Cina (Basta 2011). Tali principi, che furono anche inseriti nella risoluzione finale in dieci punti 13

14 della conferenza, sostenevano il rispetto per la sovranità e l'integrità territoriale degli stati; la non aggressione reciproca; la non ingerenza negli affari interni; l'uguaglianza e la cooperazione per un vantaggio comune; e la convivenza pacifica. Questi, tuttavia, non furono gli unici obiettivi di Pechino, ma due delle ragioni più importanti che spinsero la Cina a partecipare all'incontro, furono provare a rompere la situazione di isolamento diplomatico nella quale versava il paese e fare in modo che le altre potenze mondiali riconoscessero come legittimo il governo della Repubblica Popolare Cinese (RPC) a discapito di quello di Taiwan. Alcuni anni dopo la sua fondazione, infatti, la RPC era riconosciuta solo da alcuni paesi occidentali e dall'unione Sovietica, mentre l'america continuava a ritenere legittimo il governo di Chiang Kaishek rifugiatosi a Taiwan, dopo la vittoria del comunismo sul nazionalismo nella guerra civile nel La strategia della RPC fu quindi quella di stringere accordi con vari paesi, imponendo come condizione principale, il principio dell'esistenza di una sola Cina, ovvero riconoscere legittimo il governo della neonata Repubblica Popolare e non quello di Taiwan, che fin dal 1949 fu staccato sia politicamente che militarmente dalla Repubblica, ma che quest'ultima ha sempre ritenuto parte del territorio nazionale (Benson 2013, p.182). La presenza di numerosi stati africani alla conferenza rappresentava quindi un'occasione preziosa per la Cina di trovare nuovi alleati, dato anche il fatto che i rapporti con un partner storico, l'unione Sovietica, ora guidata non più da Stalin ma da Chruščëv, si stavano incrinando sempre più a causa della nuova politica di coesistenza pacifica sovietica. Visti i grandi obiettivi che animavano la Cina nel prendere parte alla conferenza di Bandung, quest'ultima non poté essere considerata un vero e proprio successo, ma fu in quell'occasione che il Primo ministro cinese firmò importanti accordi commerciali con l'egitto, che portano quest'ultimo a diventare il primo stato africano a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nel giugno Gli anni Sessanta-Settanta e il rafforzamento delle relazioni Dopo aver allacciato i rapporti con l'egitto, la Cina continuò la ricerca di nuovi alleati, mantenendo i contatti con i vari paesi africani e rafforzando sempre più la sua presenza sul continente. Tre anni dopo, nel 1959, il Sudan riconobbe il governo della RPC, e fu imitato da altri tre paesi dell'africa occidentale fino ad arrivare alla fine degli anni Sessanta a quattordici stati africani a sostegno di Pechino (Basta 2011). Tra il 1963 e il 1964, il Primo ministro cinese si recò in visita in dieci paesi africani e nove di essi stabilirono relazioni formali con il paese di mezzo proprio in quell'occasione. Durante tali visite vennero sempre posti alla base dei rapporti sino-africani i cinque principi di coesistenza pacifica, 14

15 tramite i quali la Cina cercava di apparire agli occhi della controparte, come un paese dai principi diametralmente opposti a quelli dei paesi occidentali che avevano colonizzato l'africa in passato. Zhou inoltre sostenne la lotta all'indipendenza dei paesi africani e queste politiche portarono i nuovi governi ad appoggiare la Cina nella lotta al suo riconoscimento politico, tanto che, nel 1971, Pechino ottenne il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle nazioni unite sostituendosi a Taipei (Cellamare 2013, p.47). Dei 76 voti positivi all'ingresso della Cina nell'onu, infatti, 26 provennero da paesi africani (Zhang Qingmin 2009). Certamente, il sostegno africano non fu solo merito della retorica usata dai politici cinesi durante le varie visite, ma anche dei fatti che la seguirono. L'immagine che la Cina voleva dare di sé ai leader africani, anche a costo di danneggiare la sua stessa economia, era quella di uno stato amico, interessato allo sviluppo dell'africa, e non quella di uno stato attratto solo dalle risorse che il continente nero offre. Per questo motivo, nel 1965, venne venduto zucchero a due terzi del prezzo di mercato al Sudan, che si trovava in una situazione di pesante crisi economica, e per tutto il decennio degli anni sessanta la Cina acquistò caffè e cacao solo allo scopo di sostenere l'esportazione africana (Basta 2011). Inoltre, a partire dal 1967, il governo cinese fornì prestiti a interessi zero dal valore di 988 milioni di yuan ai paesi africani, vi spedì ogni sorta di materiale e attrezzatura per un totale di un milione di tonnellate e inviò circa cinquantamila tecnici e ingegneri (Zhang Qingmin 2009). L'opera più significativa di quegli anni fu, senza dubbio, la costruzione di una linea ferroviaria, completata nel 1976, lunga 1860 km che collega Lusaka, capitale dello Zambia, a Dar es Salam, primo porto della Tanzania, la celebre Tazara, nota anche come la Ferrovia della libertà poiché aveva lo scopo di sostenere i movimenti liberatori africani e soprattutto liberare lo Zambia dalla dipendenza dal porto britannico di Durban (Brighi, Panozzo e Sala 2011, p. 50). Questa ferrovia aveva anche lo scopo di salvaguardare l'indipendenza nazionale e ancora oggi è considerata il simbolo dell'amicizia sino-africana. 15

16 Illustrazione 1: Ferrovia Tazara (Tazara in crisi) 1.3 L'epoca di Deng e delle riforme Il 1976 segnò una svolta importante nel sistema politico cinese. In quell'anno, infatti, morirono sia il presidente Mao Zedong che il primo ministro Zhou Enlai. Nella movimentata scena politica emerse una figura di spicco, che riuscì a ottenere molteplici cariche politiche e a diventare l'uomo più potente della Cina: Deng Xiaoping. Deng attuò numerose riforme, sia nella politica interna sia in quella estera, che trasformarono la Cina e la portarono negli anni a poter competere con le più grandi potenze mondiali. Grazie a una serie di cambiamenti strutturali e all'abolizione del sistema pianificato, il paese asiatico sviluppò un'economia socialista di mercato, nella quale le neo imprese private cominciarono a guardavano ai mercati oltreoceano nei quali poter realizzare l'invito ad arricchirsi proclamato dal politico. La politica di apertura verso l'esterno perseguita da Deng giocò un ruolo fondamentale. Nel 1978 fu infatti avviata la politica di riforme e apertura (gaige kaifang zhengce) che consisteva in una riforma del sistema economico e in un'apertura verso l'esterno, il cui obiettivo era quello di introdurre la Cina nel mercato mondiale. Fu soprattutto dopo il primo viaggio del politico in America, che il commercio estero esplose, e successivamente vennero ammessi gli investimenti stranieri in Cina tramite l'apertura di quattro zone economiche speciali (Vogelsang 2016, p. 541). Tali riforme portarono a una crescita economica del 10% annuo, un aumento del reddito pro capite dell'8,5%, un aumento vertiginoso delle esportazioni e più di 200 milioni di cinesi non versavano più in condizioni di povertà assoluta (Vogelsang 2016, p. 555). Il miglioramento delle condizioni di vita e la crescita dell'economia permisero ai cinesi imprenditori e non di recarsi all'estero a investire e cercare successo. Complice anche la politica del Going out (zouquchu) lanciata dal governo cinese negli anni Novanta per promuovere gli investimenti delle proprie imprese all'estero, in particolar modo quelli di aziende la cui principale attività era l'estrazione di risorse naturali, la maggior parte 16

17 delle quali scelse proprio l'africa come luogo di attività. Lo scopo di tale politica era selezionare un massimo di cinquanta aziende di proprietà dello stato, che erano risultate le migliori e ad esse destinare aiuti economici per il loro sviluppo, migliorarne le abilità tecniche e tecnologiche, affiancare loro un aiuto diplomatico nell'apertura di nuovi mercati all'estero, aumentare il consumo interno e diminuire il ruolo dell'esportazione nella crescita dell'economia (AGE 2009, p. 7). Oltre a un aumento di investimenti stranieri in Cina, quest'apertura assicurò anche una formazione qualificata a molti lavoratori cinesi che consentì loro di recarsi in nuovi mercati, e la maggior parte di essi vide nell'africa il luogo ideale nel quale poter investire denaro e conoscenza. In questo periodo, nonostante il vero obiettivo della Cina fosse quello di rinforzare e ampliare le relazioni con gli altri paesi già sviluppati, essa non tralasciò l'africa anzi mantenne tutta una serie di rapporti diplomatici, tra cui i più importanti erano certamente le visite reciproche dei capi di stato. 1.4 Un nuovo istituto per i rapporti sino-africani: il Forum on China-Africa cooperation I rapporti tra Cina e Africa ebbero un ulteriore sviluppo nel 2000 con la fondazione del Forum on China-Africa cooperation (ZhongFei hezuo luntan). Questo nuovo organismo aveva, e ha tuttora, il compito di rafforzare la cooperazione e il dialogo basati sull'uguaglianza e sul vantaggio reciproco, tra la repubblica cinese e i vari stati africani, e di rispondere sia alle sfide del nuovo secolo che a quelle della globalizzazione economica (Zhang Qingmin 2009). Il Forum si svolge ogni tre anni e secondo un meccanismo di alternanza, per cui l'evento sarà ospitato una volta dalla Cina e una volta dall'africa. Ad oggi si sono svolti sei incontri e il settimo si terrà nel settembre 2018 a Pechino. Il primo Forum si svolse nell'ottobre 2000, nella capitale cinese, e vi parteciparono 80 ministri cinesi e 44 stati africani. L'argomento principe fu cercare modalità innovative per rafforzare i rapporti economici e commerciali tra i due paesi dato il nuovo ordine politico ed economico internazionale. Durante l'incontro venne anche chiarito che a regolare le relazioni sino-africane saranno i Cinque principi di coesistenza pacifica. In quell'occasione, il governo cinese stanziò 10 miliardi di yuan per la riduzione del debito dei paesi africani, e questo segnò l'inizio di una lunga cooperazione volta in quella direzione, che andrà definendosi sempre più chiaramente con il tempo, che vede la Cina investire enormi quantità di denaro a favore dei vari governi africani che ricambieranno con la cessione di risorse naturali di cui questa abbisogna per la sua crescita (Focac ABC). Il terzo Forum si tenne nuovamente a Pechino in un anno fondamentale per i rapporti sino-africani, 17

18 il Il giorno seguente il Forum, si svolse un Summit del Forum per la cooperazione sinoafricana, della durata di due giorni, in cui venne definito e annunciato il piano d'azione per il triennio successivo. Questo programma fu molto importante in quanto proclamava l'inizio di una nuova tipologia di collaborazione strategica basata sull'uguaglianza politica, sull'aiuto reciproco, su una cooperazione economica di tipo vincente-vincente e sull'avvio di scambi culturali (Declaration of the Beijing Summit Of the Forum on China-Africa Cooperation). Vennero anche presentati gli investimenti della Cina: raddoppiare gli aiuti forniti all'africa nel 2006; concedere 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e altri 2 miliardi in crediti all'acquisto; istituire un fondo di sviluppo Cina-Africa dal valore di 5 miliardi di dollari per incoraggiare le compagnie cinesi a investire nel continente nero; estinguere il debito dei paesi altamente indebitati e/o meno sviluppati; aumentare a 440, rispetto alle 190 attuali, le merci africane che possono entrare in Cina senza dazi; creare dalle tre alle cinque zone di cooperazione commerciale ed economica in Africa che costituirebbero un trampolino di lancio per l'economia locale; e infine addestrare 15mila professionisti africani nei settori agricolo, culturale e medico, prestando particolare attenzione alla lotta alla malaria (Panozzo 2006a). Il sesto Forum svoltosi sul suolo africano, a Johannesburg, fornì l'occasione al presidente cinese Xi Jinping, non solo di rinnovare l'idea di una crescita comune aggiungendo, alle basi della collaborazione annunciata nel terzo forum, sicurezza e unione e il coordinamento negli affari internazionali, ma anche di annunciare lo stanziamento di 60 miliardi di dollari per finanziare progetti relativi alla modernizzazione dell agricoltura, all industrializzazione, all espansione infrastrutturale, alla crescita dei servizi finanziari, allo sviluppo economico, alle semplificazioni e agevolazioni del commercio e degli investimenti, alla lotta alla povertà, al miglioramento della sanità, alla promozione di pace e sicurezza e alla condivisione culturale. Oltre a questi finanziamenti economici ne vennero anche annunciati altri di natura sociale e umanitaria. Ciò che emerge però da questo incontro è la conferma del fatto che, nonostante la Cina continui a inneggiare a una cooperazione vincente-vincente, tale nazione detiene invece il ruolo di guida e l'africa non può che sottostare alle decisioni e alle soluzioni che propone la controparte (Finazzi 2015). 1.5 Il 2006: l'anno della Cina in Africa Come precedentemente affermato, il 2006 è da considerare un anno particolarmente importante nella storia delle relazioni sino-africane, tant'è che ci si riferisce a quell'anno come l'anno dell'africa o l'anno della Cina in Africa. 18

19 Il 2006 segnava, infatti, il cinquantesimo anniversario delle prime relazioni diplomatiche con gli stati africani, ricordiamo infatti che risalgono al 1956 i primi rapporti con l'egitto. A gennaio venne pubblicato un documento programmatico interamente dedicato al continente nero, intitolato China's Africa Strategy, anche conosciuto come il libro bianco, nel quale veniva analizzata la politica estera e riassunta in chiave ideologica la strategia da adottare in quel paese. Nel documento venne delineata una politica ad ampio raggio che coinvolgeva numerosi settori, dall'economia militare, alla politica, guardando all'interscambio culturale, al rispetto delle reciproche identità e alla difesa da ambo le parti della non ingerenza negli affari interni. I principi di uguaglianza e amicizia, reciproco beneficio, mutuo sostegno e stretto coordinamento furono posti come dei pilastri sui quali fondare questo nuovo rapporto Cina-Africa (Ling 2006). Nel primo semestre furono frequenti i viaggi di vari diplomatici e delle tre cariche più alte dello stato cinese, che visitarono complessivamente 26 paesi africani allo scopo di favorire e creare le relazioni con il governo di Pechino e che portarono alla firma di numerosi accordi economici, di cooperazione culturale medica e scientifica. In ultimo, a novembre, si tenne il terzo Forum sulla cooperazione sino-africana che promuoveva nuove e importanti strategie di sviluppo, come precedentemente riportato. Alcuni dati chiariranno meglio l'impegno cinese in Africa nell'anno in questione. Nel 2006 si contavano circa 800 imprese cinesi in piena attività sul suolo africano; più di mille progetti nel settore infrastrutturale, tra cui la creazione di porti, ospedali, reti idriche ed elettriche; furono concessi prestiti per azzerare debiti di oltre 10 miliardi di dollari contratti da 32 paesi africani; vennero annullati i dazi su 190 prodotti importati dall'africa e venne incrementato il turismo in 16 paesi africani tramite il loro inserimento nelle destinazioni consigliate da Pechino; la stima sul totale dei prestiti e delle linee di credito ammontava a circa 19 miliardi di dollari destinati principalmente all'angola, alla Guinea Equatoriale, al Gabon, alla Nigeria e alla Repubblica del Congo. Inoltre l'angola diventò il primo fornitore di petrolio della Cina e la compagnia petrolifera cinese Cnooc acquistò il 45% di una concessione offshore nigeriana (Cellamare 2013, pp. 3, 8-9). 1.6 Conferma della presenza cinese nel continente nero: il progetto One Belt One Road Recentemente i rapporti sino-africani hanno subito un'ulteriore spinta. Nel 2013, la Cina ha infatti annunciato un progetto denominato One Belt One Road (yi dai yi lu), per cui si vuole rimettere in funzione l'antica Via della seta terrestre e realizzare una Via della seta marittima del XXI secolo per collegare 65 paesi e creare un commercio euroasiatico. 19

20 Illustrazione 2: Progetto One Belt One Road (Milanesi, 2017) Come mostrato dalla cartina, l'africa è un punto molto importante per la realizzazione della nuova via della seta marittima (haishang sichou zhi lu), al punto da essere considerata dalla Cina un proseguimento naturale della via della seta terrestre e una scelta inevitabile, motivo per cui la Cina non ha mai smesso di investire e aiutare l'africa. Tale progetto infatti, oltre a collegare la Cina con il sud-est asiatico, l'africa e l'asia centrale, non solo consentirebbe al paese di mezzo di aumentare il commercio e gli investimenti in tre paesi africani, ovvero Nigeria, Angola e Sud Africa; ma porterebbe beneficio anche all'africa attraverso numerose rotte navali di merci provenienti dal Mar cinese meridionale e dall'oceano indiano (La Nuova Via della Seta Cinese arriva in Africa). Tale via passerà, infatti, lungo le coste dell'africa orientale, dove la Cina ha già costruito e sta costruendo numerosi porti. Secondo quanto riportato dal China Global Television Network, nel maggio 2017, Egitto, Etiopia, Kenya e Sudafrica sono stati gli unici stati africani a firmare lettere di intenti con la Cina. In realtà però, tale progetto è molto più ampio, in quanto il governo di Pechino sta costruendo reti stradali e ferroviarie all'interno del continente che collegheranno i vari porti alle zone centrali e agli altri scali in costruzione lungo le coste dell'africa centrale e occidentale (Breuer, p. 1, 3). La Cina investirà complessivamente 60 miliardi di dollari per potenziare strade, ferrovie e porti africani. L'attuale porto in costruzione in Algeria sarà destinato a diventare il centro marittimo dell'africa settentrionale, collegando diversi stati africani attraverso i vari progetti infrastrutturali della One Belt One Road (OBOR); la costruzione della ferrovia in Kenya collegherà il porto di Mombasa, una componente importante per l'infrastruttura OBOR, alla capitale Nairobi. Inoltre, tale progetto porta anche la Repubblica Popolare a potenziare le relazioni diplomatiche con i vari stati, 20

21 quali ad esempio l'uganda e lo Zambia. Stando alle parole dell'ambasciatore degli affari esteri al forum della cooperazione sino-africana, Zhou Yuxiao, il progetto OBOR deve tenere in considerazione le preoccupazioni dei paesi africani e incoraggiare questi ultimi a una partecipazione positiva, chiarire che la cooperazione sino-africana sta crescendo sempre più e rendere possibile lo sviluppo sostenibile autonomo dei paesi africani, nonché incoraggiare sempre più gli investimenti diretti delle aziende cinesi in Africa ( Yi dai yi lu zhuli Feizhou fazhan jianshe). Ovviamente tali investimenti non sono privi di ritorni economici per la seconda potenza economica al mondo, in quanto l'africa può diventare un collegamento commerciale fondamentale che permetterà ulteriore traffico di merci dall'oceano Atlantico alle rive dell'america e collegherà l'intero mondo con la Nuova Via della Seta (Bokarev 2017). In aggiunta, con l'attuazione dell'obor si ridurrebbero i costi di trasporto delle esportazioni cinesi e si agevolerebbe l'approvvigionamento di materie prime. 2. Le risorse naturali del continente africano A partire dall'ottocento la storia dell'africa fu segnata da continue invasioni da parte delle potenze europee con lo scopo di conquistare e colonizzare vari stati, non solo per poter sfruttare le ricchezze naturali del territorio, ma anche per assicurarsi posizioni strategiche nelle rotte commerciali. Fu solo intorno al 1960, che le varie colonie africane cominciarono ad ottenere l'indipendenza e l'intero processo di decolonizzazione durò all'incirca trent'anni. Tuttavia, l'africa non ha mai smesso di esercitare una forte attrattiva per le risorse che offre e la situazione d'instabilità politica nei vari stati fa sì che le varie potenze cerchino in tutti i modi di creare dei legami indissolubili o di dipendenza con il continente nero. Ciò avvenne in particolar modo con l'inizio del nuovo secolo e con il bisogno sempre più pressante di materie prime causato dall'economia in rapida crescita di paesi come la Cina. La necessità di risorse ha quindi portato la RPC ad aumentare il suo impegno all'estero in quanto, a livello locale, essa non ne possiede a sufficienza. Per fare un esempio, il paese di mezzo non riesce a supplire neppure alla metà della quantità domestica di petrolio richiesta giornalmente, ragion per cui garantirsi la sicurezza energetica è alla base della politica estera cinese. L'oro nero è fondamentale per la crescita sinica tanto che nel 2003 tale paese si è guadagnato il titolo di secondo consumatore di petrolio a livello mondiale e l'anno successivo ne è diventato il terzo importatore al mondo (Alden e Alves 2010, p. 30). La presenza cinese all'estero è notevole soprattutto in Africa. Quest'ultima è entrata nella lista dei nuovi paesi fornitori di Pechino a causa dell'instabilità del 21

22 medio Oriente che ha spinto la Cina a cercare altri mercati per assicurarsi una costante fornitura di risorse. Nell'ultimo decennio, inoltre, la Repubblica Popolare è diventata il più grande consumatore della maggior parte dei metalli di base con una domanda in crescita annua del 10% che ha anche causato un aumento dei prezzi sul mercato internazionale. Una delle caratteristiche principali delle relazioni sino-africane, dal punto di vista cinese, è infatti la posizione di primaria importanza che l'africa occupa nel commercio delle materie prime utili a sostenere la smisurata crescita economica sinica; per cui la Cina importa risorse di cui il continente nero abbonda, tra le quali il petrolio che occupa i due terzi del totale delle importazioni, legno, minerali, idrocarburi, pietre preziose, ferro, alluminio, piombo, zinco, platino, diamanti e cotone, ed esporta i suoi prodotti manifatturieri. Stando alle ricerche della banca mondiale, l'85% delle esportazioni africane in Cina proviene da cinque stati la cui principale risorsa è il petrolio ovvero Angola, Guinea equatoriale, Nigeria, Repubblica democratica del Congo e Sudan (Meidan 2008, p. 95). In Africa si trovano le tre più grandi risorse di petrolio al mondo ed essa può vantare il tasso di crescita più rapido nelle riserve di tale combustibile. Circa la metà delle riserve conosciute si trova nell'africa del nord e nell'africa sub-sahariana. Le più grandi di esse si trovano in Libia per il 35%, in Algeria per il 10% e in Angola per l'8%. Nel 2007 i principali produttori di petrolio furono la Nigeria, con una produzione del 25%, l'algeria con il 21%, la Libia con il 20% e l'angola con 1'8%. Quest'ultimo stato si distinse particolarmente registrando tassi di crescita della produzione sempre più rapidi, superando nel 2008 la Nigeria e diventando così il più grande produttore petrolifero sub-sahariano (Alden e Alves 2010, p. 34). Le riserve accertate di petrolio africano continuano a crescere e negli stati dell'africa occidentale, a eccezione dell'angola, non vi sono politiche di salvaguardia dell'ambiente costiero e marino. In aggiunta, non bisogna dimenticare la presenza di governi instabili e corrotti che facilitano l'ingresso delle potenze mondiali le cui forniture petrolifere dipendono in gran quantità dalle riserve africane (Ansalone 2005, p. 80). Tali risorse hanno un ruolo fondamentale non solo per i paesi esteri, ma anche per l'africa stessa, in quanto aiutano l'economia locale a crescere. Prima tra tutte il petrolio, a causa della sua importanza nel mercato globale. Dalla metà degli anni Novanta, infatti, 19 stati subsahariani hanno registrato una crescita annua del prodotto interno lordo pari o superiore al 4,5% dovuta per la maggior parte all'aumento del prezzo del petrolio nel mercato mondiale (Broadman 2007, p. 6). 22

23 Oltre al settore petrolifero, risorsa per la quale la Cina più investe in Africa, la RPC è attiva sul suolo africano anche per la presenza in gran quantità di minerali non combustibili. La si trova quindi in Africa meridionale, una delle più grandi produttrici di platino e manganese e il secondo produttore d'oro al mondo; nella Repubblica democratica del Congo, primo produttore di cobalto e di diamanti e ricca d'oro e di coltan, per la quale la Cina ha speso quasi 9 miliardi di euro per rivitalizzare il settore estrattivo minerario (Michel e Beuret 2009, pp ). Uniti la Repubblica democratica del Congo, il Sud Africa e il Botswana rappresentano più della metà della produzione mondiale di diamanti e dei giacimenti mondiali conosciuti. Inoltre, la RPC è attratta dal Gabon per il manganese, dallo Zimbabwe per il platino e dall'angola per diamanti, rame e minerali ferrosi. Forte è anche la sua presenza in Niger, ricco di uranio, in Zambia, terreno fertile e ricco di minerali ferrosi e rame, dove la Cina ha sviluppato una produzione agricola intensiva e provveduto all'estrazione mineraria. Anche il settore industriale del cotone nel Mali ha subito la presenza cinese che possiede l'80% della più grande industria cotoniera locale (Gardelli 2009, p. 93). Tra le altre risorse di cui l'africa è ricca e la Cina è interessata troviamo piantagioni di tè e caffè in Kenya e Costa d'avorio, piantagioni di cacao in Ghana e di arachidi nel Senegal. Nella zona del Sahara vi è gran quantità di ferro in Mauritania, di petrolio e gas nel Nord; per quanto riguarda l'africa occidentale essa è ricca di bauxite in Guinea, di ferro in Liberia, di fosfati in Togo, di manganese e uranio in Gabon, di petrolio in Congo, Gabon, Angola, Camerun e Nigeria; e in Botswana furono scoperti dei giacimenti di diamanti che ne fecero il più grande esportatore al mondo (Iliffe 2007, pp ). L'Africa possiede quindi le risorse naturali più disparate nonché le più richieste a livello mondiale sia per lo sviluppo economico, come ad esempio il petrolio, sia per il mercato del lusso, come ad esempio l'oro e i diamanti. Grazie a queste risorse naturali, l'africa esercita una forte attrattiva sul mercato mondiale e in particolar modo bisogna sottolineare il ruolo del petrolio negli interessi dei diversi stati, soprattutto Cina e Stati Uniti, di instaurare relazioni con il continente nero. Si può quindi affermare, che l'economia africana dipende in gran parte dalle risorse naturali di cui il continente è ricco e che le permettono di poter crescere, grazie soprattutto alla grande quantità richiesta da due potenze in via di sviluppo: Cina e India. L'85% dell'esportazione africana verso questi due paesi è infatti costituita da petrolio, metalli e materie prime agricole (Broadman 2007, p. 12). Nonostante queste risorse producano effetti positivi per la crescita economica del continente nero, tuttavia esse hanno portato, e portano tuttora, corruzione dilagante, instabilità politica e 23

24 violenze, in quanto ottenere il controllo dell'apparato statale di un paese ricco di materie prime, come ad esempio il petrolio, offre anche il beneficio del gestire gli ingenti guadagni che derivano dalle esportazioni di greggio (Carbone 2005, p. 145). Tutto ciò non permette al popolo africano di poter godere e sfruttare tali risorse per accrescere la propria economia, al contrario tutte le ricchezze naturali vengono invece utilizzate da altri paesi, tra cui in particolar modo ne beneficia la Cina, non solo esportandole ma anche costruendo nuove infrastrutture in Africa e acquisendo le quote delle società locali. 3. La penetrazione economica cinese nel mercato africano Come precedentemente affermato, l'africa è sempre stata un continente affascinante per le varie potenze per poter affermare la loro supremazia e sfruttare tutto ciò che essa offriva loro. I paesi occidentali nell'instaurare un loro governo in Africa si sono sempre presentati con un atteggiamento paternalistico e hanno posto come condizione principale il rispetto della democrazia e dei diritti umani, nonostante la maggior parte degli stati africani fosse sottoposto a regime dittatoriale. Questo approccio non ha portato risultati positivi, anzi appena i cinesi hanno iniziato a investire in Africa seguendo la loro strategia, gli africani hanno visto in essi un aiuto concreto e un modello da appoggiare per opporsi alle potenze europee e romperne i monopoli commerciali. È opportuno, a sostegno di questa affermazione, citare il consigliere del presidente congolese, Serge Mombouli: I cinesi ci offrono cose concrete, l'occidente valori intangibili. Ma a cosa servono la trasparenza, la governance, se la gente non ha elettricità né lavoro? La democrazia non si mangia mica. Di un parere simile anche Mauro de Lorenzo, ricercatore presso l'american Enterprise Institute, secondo il quale Noi occidentali siamo chiusi in una visione umanitaria per la quale piangiamo con loro [gli africani] perché sono poveri e puri, perché hanno l'aids. Ma l'umanitarismo è anche un metodo di controllo: mantiene un rapporto di dominio. Inoltre le sole storie africane che raccontiamo sono di malattie, stupri, pulizie etniche, le peggiori atrocità che gli uomini possono infliggere a altri uomini. I cinesi non hanno questi limiti mentali, vanno in Africa per fare business. Giorno dopo giorno, dunque, Pechino si è sostituita a Parigi, Londra e Washington in qualità di partner dei governi africani firmando patti di amicizia, accordi di cooperazione e prestiti senza interessi. In ogni discorso politico viene sempre invocato lo spirito del non allineamento e viene presentato il modello di sviluppo cinese, opponendo al consenso di Washington il consenso di 24

25 Pechino. Il Beijing consensus, termine coniato nel 2004 dall'economista americano Joshua Cooper Ramo, si contrappone al Washington consensus da quando la Cina ha cominciato a diventare una protagonista nell'economia mondiale e offre un modello di sviluppo alternativo a quello americano, basandosi sul limitare i diritti umani, la libertà di stampa e applicare la censura anche sul web. Il Beijing consensus ha inoltre raccolto più approvazioni, in quanto l'africa si rivede nella Cina e spera anch'essa di poter effettuare la trasformazione da paese povero a potenza economica mondiale, dal momento che le basi di partenza dell'africa odierna sono simili a quelle della RPC degli anni Settanta (Panozzo 2008, p. 52). Per capire quale fu la strategia cinese, è importante tenere presente la situazione che gli imprenditori cinesi dovettero affrontare al loro arrivo in Africa. A seguito della decolonizzazione, i paesi occidentali preferirono ritirarsi dal territorio, a causa della delicata situazione politica che venne a crearsi in alcuni stati o a seguito dell'arretratezza delle infrastrutture, per le quali si sarebbero dovute investire ingenti quantità di denaro per poter estrarre e trasportare le risorse naturali più comodamente e con maggior profitto. Questo vuoto venne presto colmato da un nuovo attore, la Cina, particolarmente interessato ad ampliare la sua politica estera per potersi garantire una sicurezza economica adeguata alla sua continua crescita e per il quale le circostanze in cui versava il continente nero non costituivano problemi. Vennero quindi posti alla base delle relazioni sino-africane i cinque principi di coesistenza pacifica, tra i quali, il principio di non ingerenza negli affari altrui fu considerato come il punto principale e nevralgico per il buon fine dell'attività cinese in Africa, e in base al quale la RPC si impegnava a rispettare la sovranità dello stato partner non giudicando le decisioni e le azioni dei capi di stato e non intromettendosi nel suo sistema politico. È proprio osservando tale principio che il governo di Pechino non si è mai posto problemi nello sviluppare e mantenere relazioni con governi non democratici, violatori di diritti umani, profondamente corrotti o condannati dalle potenze occidentali. Ne è un esempio il Sudan, per cui le cruente repressioni e i genocidi avvenuti durante il conflitto del Darfur non erano affari di competenza cinese o che potevano minare in qualche modo il sostegno e gli investimenti al governo di Khartum. Sembra quindi che la Cina non abbia mai imposto condizioni politiche quali il rispetto dei diritti umani, di norme lavorative minime o della lotta alla corruzione, né tanto meno abbia mai cercato di intraprendere missioni civilizzatrici in Africa a livello religioso o sociale, al contrario, si è presentata come disposta a collaborare con qualsiasi sistema. Eppure, una condizione politica, 25

26 seppur minima, l'ha imposta: chiunque volesse intrattenere relazioni con la Repubblica Popolare doveva aderire al principio dell'unica Cina o dell'esistenza di una sola Cina. Tale obiettivo era per lo più strategico e serviva a far disconoscere e delegittimare il governo di Taipei a favore di quello della Cina continentale e a ottenere sostenitori per strapparle il seggio al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Una volta raggiunto tale fine, la Repubblica Popolare ha posto il veto indiscutibile nel riconoscere e ammettere Taiwan all'onu. Questo modo di agire deriva dal fatto che la Repubblica Popolare ha sempre considerato Taiwan come una sua legittima parte che non può essere indipendente. Negli ultimi anni l'isola di Formosa ha cercato di elargire aiuti economici in cambio del riconoscimento diplomatico, ma l'importanza economica e politica del suo concorrente rendono questa sfida invincibile per la repubblica di Cina. Lo stato di Sao Tomé e Principe ha infatti tagliato le relazioni con Taiwan nel 2016 per poter usufruire degli aiuti economici molto più sostanziosi di Pechino, e ad oggi sono rimasti due gli stati africani che riconoscono legittimo il governo di Taipei: Swaziland e Burkina Faso (La Cina mette alle corde Taiwan). Un altro punto di forza della penetrazione economica cinese nel suolo africano è stato il presentarsi come un paese suo pari, che condivide uno stesso passato colonialista e il cui obiettivo è una collaborazione sud-sud, o vincente-vincente, ovvero una cooperazione reciproca che rechi vantaggi a entrambe le parti. Per la Cina, tale strategia si basa sul fornire aiuti economici, assistenza, intensificare il volume degli scambi commerciali e degli investimenti in cambio di risorse naturali o diritti di esplorazione. La RPC offre quindi miliardi di dollari ai vari paesi africani per l'estinzione del debito pubblico o per la costruzione di infrastrutture volte al miglioramento non solo della vita locale, ma anche della situazione lavorativa con la quale i cinesi devono confrontarsi (Cellamare 2013). Inoltre, diffonde nel continente nero i suoi prodotti semplici e a basso prezzo che portano a un aumento della qualità di vita degli africani; ripara strade, ferrovie ed edifici pubblici; costruisce dighe in Sudan e in Congo; aiuta l'egitto con un progetto per il nucleare civile, apre ospedali, scuole e orfanotrofi e attrezza l'africa di reti senza fili e fibre ottiche (Michel e Beuret 2009, p. 15). In sintesi, tali investimenti si possono classificare come una strategia do ut des, una collaborazione che per la Cina consiste nel procurarsi materie prime a basso costo, costruendo in cambio infrastrutture e trasferendo know-how e che al contempo consente all'africa di migliorare le proprie condizioni. È bene sottolineare, che la strategia di Pechino non si è concentrata soltanto sull'africa e gli africani, ma ha anche guardato a livello locale, per cui il governo cinese finanzia e incoraggia coloro i quali vogliono investire nel continente nero. Per questa ragione sono nate diverse banche e 26

27 fondi, tra i quali il China-Africa Development Fund (CADF) e la Export-import Bank of China (Exim Bank). L'istituzione del CADF venne annunciata durante il Summit di Pechino nel 2006 e l'anno successivo era già operativo. Esso ha lo scopo di incoraggiare e supportare le aziende cinesi che investono in attività economiche e commerciali in Africa, nonché di rafforzare le basi per lo sviluppo dell'economia africana, la capacità di quest'ultima di autosviluppo e la sua competitività nell'economia globale. Il capitale di tale fondo, inizialmente di 5 miliardi, è stato raddoppiato per decisione di Xi Jinping durante il Focac svoltosi nel 2015 (The company overview). Particolarmente attiva in questo ambito è anche la Exim Bank cinese, di proprietà del governo e fondata nel 1994, che finanzia la creazione di infrastrutture in cambio di risorse, a seconda delle necessità del paese e, ovviamente, a seconda di ciò che serve per poter meglio trasportare o lavorare la materia prima presente, per cui si costruirà una miniera, una diga, una centrale idroelettrica, una ferrovia o una raffineria. L'operazione non comporta costi per gli africani, ma crea lavoro, entrate fiscali, infrastrutture, ed energia (Michel e Beuret 2009, p. 17). La Exim Bank ha elargito numerosi crediti che hanno portato a uno sviluppo del commercio bilaterale e degli investimenti diretti in Africa e sostiene l'ingresso nel continente nero di imprese siniche che seguono la strategia del Go global con l'obiettivo di accrescere la loro produttività e competitività (Patassini 2012, pp ). Un esempio di operatività della Exim Bank è il finanziamento del 85% del costo totale, pari a 3,8 miliardi di dollari, della costruzione della linea ferroviaria che collega Mombasa a Nairobi, nell'ambito del progetto OBOR. Il denaro concesso a prestito agevolato permette al Kenya di iniziare a ripagare il suo debito fra dieci anni con i ricavi che la ferrovia genererà (Giovetti 2017). Si può quindi notare come, tramite questi aiuti economici, la Cina leghi a sé dei paesi nel lungo termine, assicurandosi il loro sostegno in ambito diplomatico e lo sfruttamento delle risorse in ambito energetico. La strategia cinese è dunque totalmente diversa da quella europea e per questo ha avuto successo. Per il governo di Pechino la regola d'oro è la reciprocità degli interessi, raggiunta attraverso la stipula di accordi che vedono entrambe le parti vincenti e puntando alla ricerca della ricchezza sia per loro stessi che per gli africani (Michel e Beuret 2009, p. 18). La non ingerenza nella politica e l'assenza di condizioni politiche, ad eccezione dell'adesione al principio dell'unica Cina, sono risultate la carta vincente della strategia cinese che, insieme al suo passato e all'essere considerata un modello di sviluppo emulabile, ha portato al riconoscimento della Repubblica Popolare come partner ambito da ogni stato africano. 27

28 4. I settori di investimento e la situazione import export Dopo aver analizzato le modalità di ingresso nel mercato africano, risulta opportuno capire in quali settori e in quale misura la Cina si impegna in Africa. In una panoramica generale, i principali settori di investimento sono l'energetico, le risorse minerarie e naturali, la logistica, le infrastrutture, nello specifico ferrovie, strade, ponti, aeroporti e vari progetti urbani (Patassini 2012, p. 143). Per quanto riguarda il settore energetico, la RPC in Africa ha costruito bacini e centrali idroelettriche, estensioni di gasdotti, elettrificazione di aree rurali, costruzione di centrali termiche a carbone ed espansione di linee ferroviarie riguardanti il trasporto di minerali. Collegato all'energia vi è il settore trasporti per il quale sono state riabilitate e modernizzate vecchie linee ferroviarie e costruiti e potenziati i porti di scambio. Ne è un esempio calzante la linea di 756 km che collega Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba e che riduce il tempo di transito per il trasporto merci tra le due città da tre giorni a dieci ore. Nell'ambito delle risorse naturali e minerarie la maggior parte degli investimenti sono rivolti alle attività estrattive nel settore petrolifero e in quello orafo. Concentrandoci sul campo petrolifero, dal 1993 la Cina iniziò ad avere un ruolo importante nell'importazione di petrolio, diventandone una decina d'anni dopo secondo consumatore al mondo. È quindi evidente che essa investe molto in tale settore per assicurarsi un continuo flusso in entrata di oro nero. Nel 2008, tra joint ventures con alcune compagnie petrolifere locali, acquisti parziali di altre, solo in Nigeria e Angola la Cina ha investito quasi cinque miliardi di dollari (AGE 2009, p.33). Tra essi, l'angola è sicuramente lo stato africano in cui la Cina è più presente, si conta infatti che in quindici anni si siano stanziati 20 miliardi di dollari in cambio di importazione di petrolio (Battistone 2017). Tra i vari progetti urbani, sono stati effettuati investimenti volti a migliorare le condizioni abitative di alcune città africane, tra i quali ricordiamo gli interventi sulle reti di approvvigionamento e distribuzione dell'acqua potabile e costruzione di reti idriche e pozzi in 19 stati. In tale ambito, molto discussa dai paesi occidentali, è stata la costruzione della cittadella di Kilamba, vicino alla capitale angolana, costituita da 710 edifici comprendenti ventimila appartamenti e servizi tra cui scuole, asili e negozi. Tale città venne conosciuta come città fantasma, in quanto rimase vuota per parecchi anni, in primo luogo a causa dei prezzi proibitivi delle case per i cittadini africani e anche a causa della difficoltà per gli angolani di ottenere dei mutui e 28

29 dell'inefficienza nella gestione dell'assegnazione degli appartamenti (Giovetti 2017). Inoltre gli investimenti sinici sono molto attivi anche nel settore dell'agricoltura per l'esportazione e il miglioramento della sicurezza alimentare, la creazione di circa cinquanta centri di tecnologia agricola con lo scopo di fornire consulenza agli agricoltori locali e riuscire a trasformare il settore agricolo in una vera e propria agricoltura professionale (Battistone 2017). Analizzare gli investimenti da un punto di vista economico, conoscere con esattezza ed essere certi dell'entità delle importazioni ed esportazioni è difficile, poiché la politica perseguita da Pechino in tale ambito non è trasparente, per cui il governo non pubblica nessun dato ufficiale. Tuttavia, consultando fonti attendibili si riesce a tracciare un profilo relativo alle dimensioni degli scambi commerciali tra i due paesi. Nei primi anni delle relazioni, negli anni Sessanta, il volume degli scambi era pari a circa 12 milioni di dollari. Dal 2001 al 2015, il commercio tra i due paesi è aumentato del 21% annuo, passando da 13 miliardi a 188 miliardi, facendo così della Cina il primo partner commerciale dell'africa, seguito dall'india con un valore di scambi di circa 59 miliardi. L'anno successivo, la Repubblica Popolare è diventata il primo paese per capitali investiti in Africa, più di 36 miliardi di dollari, ha creato circa 40 mila posti di lavoro, promosso 62 progetti (Giovetti 2017) e i suoi investimenti diretti crescono a un tasso costante annuo del 40%. Non bisogna tuttavia dimenticare il ruolo della Exim Bank che, dal 2000 al 2015, ha concesso finanziamenti sotto forma di prestiti e crediti per un valore di oltre 95 miliardi di dollari (Battistone 2017). Per quanto riguarda i primi sei mesi del 2017, il volume del commercio sino-africano ha raggiunto gli 85 miliardi e 300 milioni di dollari registrando un aumento pari al 19%. In esso, il settore import è aumentato del 46% raggiungendo 38 miliardi e 400 milioni di dollari, mentre il settore export è aumentato del 3% raggiungendo la quota di 47 miliardi. I principali partner commerciali sono stati Sudafrica, Angola e Nigeria con i quali la Cina ha aumentato il commercio rispettivamente del 28%, 67% e 22% (Shangwubu zhaokai lixing xinwenfabuhui jieshao 2017 shangbannian ZhongFei jingji hezuo qingkuang). Secondo i dati dell'amministrazione generale delle dogane cinese, nel gennaio 2018, il totale delle importazioni ed esportazioni sino-africane è stato pari a 16,5 miliardi di dollari, aumentando del 13,7% rispetto allo stesso periodo nell'anno precedente. Tra questi, la Cina ha esportato per un valore di 8 miliardi e 300 milioni di dollari, registrando un calo del 4,7%, e ha importato risorse per 8 miliardi e 200 milioni di dollari, registrando, in questo caso, un aumento pari al 41,1% (2018 nian 1 yue wo yu Feizhou maoyi shuju). 29

30 Come si può evincere dai dati, il commercio sino-africano è piuttosto orientato all'importazione. La Cina acquista in particolar modo petrolio e minerali tra i quali ricordiamo oro, ferro, diamanti, rame e cobalto, ma sono anche importati prodotti agricoli, tra i quali frutta e caffè sono aumentati rispettivamente del 151% e 77% nel primo semestre del Le esportazioni verso l'africa sono invece costituite da manufatti, tessuti, prodotti chimici, prodotti elettronici a basso costo come telefonini, televisioni e computer, macchinari agricoli e industriali, attrezzature per il trasporto come navi, locomotive, veicoli e attrezzatura aerospaziale (Shangwubu zhaokai lixing xinwenfabuhui jieshao 2017 shangbannian ZhongFei jingji hezuo qingkuang). Tale differenziazione nell'export ha lo scopo non solo di soddisfare la domanda locale mantenendo prezzi bassi e accessibili ma anche e principalmente di accrescere gli investimenti esteri della RPC, migliorarne la qualità ed espandere il marchio cinese e la sua conoscenza all'estero. Illustrazione 3: Volumi del commercio sino-africano nel periodo (Data: China-Africa trade) 5. Gli aiuti cinesi in Africa La Cina quindi investe ingenti somme di denaro nei vari paesi africani, ma tali aiuti portano benefici reali alla popolazione locale o al contrario producono effetti negativi? 30

31 Innanzitutto, riprendendo quanto affermato nel paragrafo precedente, la Cina importa materie prime ed esporta nel territorio africano prodotti finiti. Questi scambi portano le bilance commerciali dei partner africani a pendere negativamente, i paesi del continente nero si trovano in una situazione di deficit costante e l'economia africana viene spinta a basarsi sempre più sull'industria estrattiva che, però, per sua natura non consente uno sviluppo ampio e durevole nel futuro. L'inteso commercio sino-africano produce quindi delle forti ripercussioni sulle economie dei paesi africani. In primo luogo, perché le aziende cinesi che si sono insediate in Africa tendevano a portare con sé anche i lavoratori, senza utilizzare così la manodopera locale e questo ha portato alla perdita di migliaia di posti di lavoro e alla crisi di interi settori, primo tra tutti a pagarne le conseguenze fu quello del tessile (Basta 2011). In secondo luogo, le industrie africane hanno cominciato a perdere sempre più mercato, a favore dei prodotti cinesi, specialmente magliette e scarpe, che vengono venduti a prezzi decisamente inferiori e se paragonati a quelli prodotti localmente sono di qualità maggiore. Per spiegare meglio tale fenomeno si può prendere ad esempio il Sudafrica. Nel 2004, le esportazioni cinesi di tessile nello stato africano sono cresciute del 40% arrivando a coprire l'80% del mercato, ma allo stesso tempo tale aumento ha portato anche a una riduzione dei posti di lavoro, facendo perdere l'occupazione a 75 mila africani (Lyman 2005). Uniti, quindi, questi due fattori rappresentano un forte ostacolo alla crescita del sistema economico africano nel suo complesso (Riggio 2009, p. 88). Ad aggravare tale situazione vi è il fenomeno della corruzione, particolarmente dilagante, per cui gli aiuti economici forniti da Pechino spesso sono usati a beneficio di despoti e tiranni, non chiedendo il governo cinese di amministrare tali fondi in maniera trasparente e applicando costantemente il principio di non ingerenza. Questo denaro viene dunque utilizzato non a vantaggio della popolazione locale, bensì per mantenere il potere, reprimere il dissenso con la violenza o promuovere guerre civili nelle zone in cui più forte è la ribellione. In altri casi, invece, come ad esempio in Angola, il denaro immesso nell'economia locale, in cambio della fornitura di greggio, ha avuto effetti positivi. Nel corso degli anni infatti il Pil di questo stato è cresciuto, il governo angolano è riuscito a ridurre il tasso di inflazione dall'iniziale 325% al 13% e il tasso di povertà è sceso dal 63% al 38%. Benefici analoghi si sono verificati in altri paesi come il Sudan, la Guinea Equatoriale e la Repubblica del Congo, ovvero nei paesi la cui principale fonte di guadagno è il petrolio (Basta 2011). La corruzione viene inoltre utilizzata dai politici cinesi come strumento per poter vincere gare di appalti o ottenere concessioni esplorative. Proprio per tale motivo, nel novembre 2017, He Zhiping, l'ex segretario degli affari interni di Hong Kong venne arrestato in quanto accusato di aver offerto al 31

32 precedente ministro degli affari esteri senegalese, Cheikh Gadio, una mazzetta dal valore di due milioni di dollari in cambio dell'assegnazione di una zona in cui estrarre petrolio, senza dover competere con le compagnie di altre nazioni. Inoltre, He è stato anche sospettato di essersi accordato con il ministro degli affari esteri ugandese, Sam Kutesa, per offrirgli una mazzetta di 500 mila dollari in cambio della creazione di partnership strategiche tra aziende ugandesi e siniche (Zhengduo Feizhou shiyou ziyuan, kaoyan Zhongguo fazhi juexin). Guardando invece agli stati africani che basano il loro commercio su altre materie prime, spesso il problema principale causato dagli investimenti in Africa è legato all'aspetto ambientale. L'esportazione di ingenti quantità di legname, ad esempio, sta portando al disboscamento della foresta equatoriale della Repubblica del Congo. Inoltre, la costruzione di nuove infrastrutture comporta la demolizione degli edifici esistenti e il trasferimento di intere popolazioni, spesso senza compensazioni, che non solo perdono la loro dimora ma anche i campi, fonti di guadagno e di sostentamento. Altre infrastrutture vengono invece realizzate senza curarsi dell'ambiente circostante. È il caso della ferrovia keniana che attraversa il parco nazionale di Nairobi, area naturale protetta, che ospita numerose specie di animali africani (Breuer 2017, p. 6). Alcune ricerche della Banca Mondiale, della Brookings Institution e del Pew Research Center hanno invece evidenziato gli aspetti positivi degli aiuti economici cinesi. Da esse risulta, infatti, che gli investimenti sinici crescono giorno dopo giorno e non si limitano solo alle risorse naturali, ma comprendono anche il settore terziario e l'industria manifatturiera, e inoltre le aziende cinesi sono sempre più attente all'impatto che i loro investimenti hanno sulle comunità locali. Ed è per tale ragione, che nell'aprile 2015, la Cina ha annunciato un prestito di cento milioni di dollari al Kenya per combattere la disoccupazione giovanile (Qiu Xiaomin 2015). Inoltre, è importante evidenziare che gli aiuti economici cinesi rappresentano soltanto il 3% degli investimenti totali nel continente nero. Tuttavia, essi vengono criticati duramente dai paesi occidentali e presentati come un fenomeno incontrollabile il cui fine ultimo è lo sfruttamento delle risorse naturali del continente. Nonostante gli investimenti sinici siano aumentati in maniera costante dai primi anni del 2000, la loro quota non ha ancora raggiunto quella investita dagli altri paesi sviluppati, e nel complesso essi costituiscono una percentuale ancora molto bassa (ibid.). Dai risultati di un sondaggio, è emerso che oltre il 70% degli africani intervistati ritiene positivi gli aiuti sinici, mentre solo il 40% preferisce gli interventi dei paesi occidentali. Tale risultato riflette il 32

33 pensiero della popolazione e dei politici. Un importante membro della Commissione economica per l'africa ha infatti affermato: Se vuoi ottenere cose concrete, rivolgiti alla Cina. Se vuoi continuare a parlare incessantemente, allora rivolgiti ai tradizionali paesi donatori. I cinesi che si recano in Africa sono considerati lavoratori laboriosi e questo è dovuto al fatto che, essi sono persone comuni appartenenti a ogni classe sociale, disposte a notevoli sacrifici al fine di migliorare il proprio destino, allo stesso modo degli africani che ogni anno si recano in Cina alla ricerca di opportunità lavorative. Inoltre, un altro elemento che ha portato alla maggioranza di risposte positive è la possibilità che la RPC offre agli africani di recarsi nel paese per conoscere, apprendere o lavorare, senza aver mai imposto di dover imparare da lei o di credere nei suoi stessi ideali e valori (Zhongguo: Feizhou de hezuo huoban haishi xin zhiminzhe). Un progetto molto importante intrapreso dalla Cina per migliorare le condizioni del Sudafrica è l'avvio di scambi culturali tra queste due popolazioni. Il programma fu annunciato nell'aprile 2017, durante l'incontro tra il vice premier cinese, Liu Yandong, e il ministro dei beni e della cultura sudafricano, Nathi Mthethwa, a Pretoria, in occasione del quale furono anche firmati sei accordi di cooperazione. Tali scambi culturali mirano a migliorare le relazioni tra i due paesi; intensificare la collaborazione tra essi; facilitare la cooperazione sud-sud in molte aree, ivi comprese l'educazione, la cultura, la scienza e la tecnologia, la salute, il turismo, i think tank e la gioventù; approfondire la conoscenza e la comprensione reciproca e promuovere lo sviluppo e la prosperità di entrambe le nazioni (Mengjie 2017). Nel febbraio 2018 fu tenuto in Etiopia un seminario sul tema degli scambi culturali finalizzati alla conoscenza reciproca tra la Cina e l'etiopia. Il presidente etiope dell'associazione per l'amicizia dei popoli sino-etiopi ha presentato positivamente gli investimenti della Cina in vari settori, sia industriali sia sociali, che hanno portato alla crescita economica di tutta l'africa. Successivamente, ha evidenziato come i rapporti tra i due paesi si fossero sempre basati sulla comprensione reciproca e sul cooperare per il benessere comune. In aggiunta, Hailekiros, il vicepresidente dell'associazione etiope, ha elogiato la solidarietà cinese grazie alla quale sono state create delle aree di libero scambio nell'africa continentale che hanno reso possibile l'integrazione tra i vari territori. (Yamei 2018). La presenza cinese in Africa non è solo un risultato del diretto interessamento sinico, ma alle volte, sono gli stessi stati africani a voler attirare le imprese della RPC a investire nel loro territorio. Il Kenya fornisce un chiaro esempio a sostegno di questa affermazione. Secondo Tuju, il segretario generale del partito al potere, è infatti fondamentale per il Kenya stipulare accordi con la Cina, 33

34 soprattutto nel settore industriale per svilupparlo, in quanto esso rappresenta la chiave per la prosperità e per la risoluzione del problema della disoccupazione giovanile. A tal fine, è necessario, però creare un governo stabile e un ambiente governativo consono che incoraggi le imprese estere ad aiutare il paese. In questo caso, quindi, la presenza cinese porta un duplice beneficio, poiché oltre a migliorare le condizioni delle infrastrutture e dei vari settori in cui le imprese siniche investono, la prospettiva del suo aiuto giova anche alla situazione politica che verrebbe stabilizzata (Kenya says Chinese investments key to realize industrialization agenda). Nell'analizzare i risultati degli aiuti economici bisogna cercare di essere il più oggettivi possibili, tuttavia è normale che si arriverà a conclusioni differenti a seconda della prospettiva dalla quale di sceglie di guardare. Da una parte, vi sono gli studiosi occidentali, per i quali, la presenza cinese in Africa suscita, perlopiù, molte perplessità: essa viene vista come una forma di neo-colonialismo, dove gli investimenti sono finalizzati a saccheggiarne le risorse e a sfruttarne il terreno ; dietro agli aiuti per i quali non sono imposte condizioni politiche si cela in realtà il disprezzo dei diritti umani; l'assistenza nello sviluppo delle infrastrutture è solo la causa di profondi danni ambientali; e infine, i prestiti a tassi preferenziali generano un aumento dei già sostanziosi debiti dei vari stati africani. Dall'altra parte, le autorità di Pechino, secondo le quali, gli investimenti hanno il compito di migliorare e rendere più competitiva la struttura commerciale africana, di potenziare la gestione aziendale, di collaborare nella tutela dell ambiente, di rafforzare lo scambio culturale e di promuovere le aziende locali al fine di ampliarne la cooperazione a livello internazionale (Cellamare 2013, p. 5). È dunque difficile poter affermare quali siano i risultati effettivi di tali aiuti, se positivi o negativi per il continente nero. La giusta risposta verrà fornita dal tempo. Se l'africa riuscirà a emergere e porsi nella competizione globale a pari degli attori già presenti sul mercato, allora sarà anche grazie agli aiuti economici cinesi, mediante i quali è stato possibile estinguere debiti e potenziare le infrastrutture. Se, al contrario, la situazione del continente nero non migliorerà, ma, come sostengono i governi europei la Cina avrà solo sfruttato le risorse naturali danneggiando l'economia locale e l'ambiente, allora si potrà dichiarare ed evidenziare la natura negativa e il fallimento di tali investimenti. 34

35 CAPITOLO II LA PRODUZIONE PETROLIFERA E LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE AFRICANE 1. Il petrolio cinese Come analizzato in precedenza, grazie alle riforme attuate da Deng, la Cina intraprese il cammino per diventare una potenza mondiale. La sua ascesa economica si fondava sull'industria che per svilupparsi aveva bisogno del petrolio. Per crescere quindi, la Repubblica Popolare bruciava, e brucia tutt'ora, enormi quantità di greggio e questo l'ha portata a diventare una protagonista di rilievo nel mercato internazionale dell'oro nero. Nel 2016, le riserve petrolifere attestate nel territorio cinese ammontavano a tre miliardi e mezzo di tonnellate, distribuite in gran parte nei venti principali giacimenti, tra i quali, i tre più importanti si trovano a Daqing, Shengli e Tarim. Illustrazione 4: Principali giacimenti di petrolio in Cina (Duey 2015) Il giacimento di Daqing è il più esteso, con una superficie totale superiore a mille chilometri quadrati e si trova nei pressi di Harbin, nella parte centrale della provincia Heilongjiang nella pianura nordorientale. Fu scoperto alla fine degli anni Cinquanta e per molto tempo la sua produzione rimase stabile a oltre 50 milioni di tonnellate di petrolio all'anno. Dal 2004 però, l'attività produttiva del giacimento fu diminuita del 20% al fine di estenderne la durata. Come riportato da un articolo apparso sul Diplomat, esso rappresenta la principale fonte petrolifera del 35

36 paese, infatti, un barile di greggio ogni cinque barili estratti in tutto il continente, proviene da questo giacimento (Duey 2015). Il giacimento di Shengli si trova nella provincia dello Shandong, nella città di Dongyi. La sua scoperta risale agli inizi degli anni Cinquanta, ma solo a partire dal 1978 è diventato la seconda area in ordine di grandezza, con una produzione in quell'anno pari a 19,46 tonnellate. Dal 2000, la sua attività annua si mantenne stabile a oltre 27 milioni di tonnellate. Al contrario dell'area petrolifera di Daqing, il suo futuro si prospetta prosperoso e si prevede che la sua produzione continuerà ad aumentare, grazie alle politiche governative perseguite dalla Sinopec che controlla il giacimento. (Sinopec Shengli Oilfield Company). Il giacimento di Tarim si trova nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nordovest della Cina. Le prime operazioni in tale area iniziarono nel 1989 e, da allora, essa ha ricoperto un ruolo importante nella salvaguardia della sicurezza energetica del paese, nonché nella crescita economica e sociale della regione stessa. Nel 2017, la sua produzione di greggio ha raggiunto la quota di 5 milioni e 200 mila tonnellate e si prevede di aumentarne l'output annuo a trenta milioni di tonnellate entro il 2020 (Tarim oilfield total output exceeds 300 mln tonnes). Nella prima fase dello sviluppo economico cinese, la domanda di greggio non superava l'offerta, rendendo sufficiente e abbondante il petrolio estratto dai giacimenti presenti a livello locale, consentendo quindi alla Cina di vendere la sovrapproduzione all'estero e di guadagnarsi il titolo di più grande esportatore asiatico. Tuttavia, con il passare degli anni, la domanda aumentò a dismisura, al punto che, le risorse locali cominciarono a non soddisfare più nemmeno la metà delle richieste. Dal 1993 al 2008, infatti, il consumo di questo idrocarburo raddoppiò, passando da tre milioni e mezzo di barili al giorno a otto milioni (Basta 2011). La RPC si vide quindi costretta, non solo a cessare le esportazioni ma anche a dover importare sempre più oro nero, fino a diventare, nel 2004, il terzo importatore a livello internazionale e occupando, dal 2003 ad oggi, il posto di secondo consumatore mondiale (Alden e Alves, p. 30). Da allora la fame e il consumo di petrolio non si sono più fermati, tanto che nel 2017, la Cina ha superato l'america per quantità di greggio importato e le ha sottratto il posto di maggior importatore mondiale. Nell'anno passato, la Repubblica Popolare ha importato in totale 8,4 milioni di barili al giorno, mentre l'america 7,9 milioni (Paraskova 2018). Dalla fine degli anni Novanta, dunque, le principali società energetiche cinesi si adoperarono per acquistare petrolio all'estero e per dare vita a joint venture con le maggiori compagnie petrolifere 36

37 internazionali e nazionali dei paesi verso i quali nutrivano interesse. Nel solo febbraio 2009, banche e aziende cinesi hanno firmato accordi con società russe, brasiliane, venezuelane e kazake per un valore totale di quasi 50 miliardi di dollari. Anche molti paesi africani tra i quali Nigeria, Gabon, Guinea Equatoriale e Kenya, si sono aggiunti alla lista dei partner di Pechino, mentre l'angola era diventata il principale fornitore estero di petrolio della RPC già dal 2006, anno in cui aveva superato l'arabia Saudita (Klare 2010, pp ). Particolare attenzione venne riservata anche all'asia centrale nel suo complesso, in quanto confinante direttamente con le province nordoccidentali della Repubblica Popolare (Ansalone 2008, p. 49, 86). 1.1 Le tre principali compagnie petrolifere cinesi In Cina sono presenti tre grandi aziende petrolifere di proprietà dello stato, ognuna delle quali svolge un compito preciso. Si tratta di China National Offshore Oil Corporation (Cnooc), creata nel 1982, che si occupa dei giacimenti offshore, ovvero quelli in mare aperto; Sinopec creata nel 1983 e alla quale vennero affidate le attività petrolifere a valle, vale a dire la raffinazione e i prodotti derivati; e China National Petroleum Corporation (Cnpc) trasformata in società nel 1988, il cui incarico è relativo alle fasi di esplorazione ed estrazione (Basta 2011 e Meidan 2007, p. 85). Dal 1993, spinte dal pressante bisogno di energia, queste tre imprese si affacciarono sul mercato internazionale e la loro entrata in tale contesto non fu priva di difficoltà e fallimenti, dovuti soprattutto all'inesperienza. Inizialmente, le compagnie firmarono con le controparti dei semplici accordi di produzione in comune, successivamente iniziarono a stipulare veri e propri contratti contenenti le principali clausole, tra le quali quella arbitrale, per la protezione dei propri interessi, arrivando anche a firmare trattati bilaterali per gli investimenti con paesi come l'arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Kazakistan (Moreira 2013, p. 144). Un altro importante ostacolo era rappresentato dalla suddivisione organizzativa delle compagnie petrolifere cinesi che non permetteva loro di competere con le altre società internazionali. Vi era infatti una notevole differenza nell'organizzazione del lavoro da parte delle diverse compagnie. Un'impresa occidentale o americana, quale la Total, la Chevron o l'eni, poteva occuparsi da sola sia di progetti onshore che offshore e seguire ogni fase dello sfruttamento di un giacimento, a partire dall'esplorazione fino alla raffinazione; mentre, una delle tre aziende cinesi non poteva svolgere singolarmente tutte queste attività, in quanto il metodo operativo imposto dal governo di Pechino prevedeva una netta suddivisione dei compiti. Di conseguenza, i giacimenti petroliferi offshore erano esclusivamente di competenza della Cnooc; la Cnpc esplorava i giacimenti onshore, provvedeva all'estrazione del greggio e terminato il suo compito veniva sostituita dalla Sinopec che 37

38 si occupava di raffinare la materia prima e trasformarla in prodotti finiti. Dopo aver confrontato il suo modo di operare con quello della concorrenza, la Cina capì che era necessario modificare l'organizzazione interna delle sue compagnie. Per questo motivo, nel 1998, applicò una riforma per integrare verticalmente le tre aziende, le quali mantennero però la supremazia nei precedenti campi di attività caratteristici, per cui la Cnpc continuò a gestire il 66% della produzione cinese di greggio, la Sinopec a detenere il 54% delle capacità di raffinazione e la Cnooc è ancora la capofila nei mercati offshore (Basta 2011). A partire dal 2002, le tre compagnie petrolifere ricevettero il sostegno dello stato, che aveva capito la loro fondamentale importanza a livello internazionale per l'importazione di oro nero. Tale aiuto si concretizzò attraverso un'intensa attività diplomatica, la concessione di prestiti a tassi preferenziali e grazie a esso le tre aziende furono in grado di sfidare la concorrenza. Fu così che esse riuscirono a cambiare il loro modo di investire, potendo spaziare in una larga scala di opportunità, guardando sia ai progetti di media o ampia dimensione con bassi rischi, sia ai progetti di esplorazione con alti rischi, iniziando a investire nelle ricerche in acque non troppo profonde, formulando contratti a lungo termine e utilizzando sempre di più i modelli di fusioni e acquisizioni (Moreira 2013, p. 146). Nonostante le difficoltà, le tre compagnie cinesi riuscirono a firmare numerosi accordi in vari paesi, ad assicurarsi concessioni di esplorazione e ad acquistare quote di altre società petrolifere. Nel 1997, la Cnpc avviò le prime attività esplorative in Kazakistan, attraverso l'acquisizione di una parte della Aktobemunaigaz, una compagnia petrolifera locale, che gestisce le attività esplorative e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi situati nel nordovest della regione; nel 2003 Sinopec e Cnooc cercarono di intensificare la presenza cinese nel settore degli idrocarburi, offrendosi di rilevare la quota detenuta da British Gas all'interno del consorzio di sfruttamento del giacimento misto di Kashagan, nel Mar Caspio; due anni più tardi la Cnpc rilevò la compagnia kazakocanadese PetroKazakhstan, acquisendo sia i diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi di Kumkol, nel Kazakistan centrale, e del bacino del fiume Turgai, nel Kazakistan occidentale, che il controllo congiunto insieme a Kazmunaigaz del complesso di Shymkent, il principale impianto di raffinazione del paese. Nell'agosto 2005, Cnpc e Kazmunaigaz firmarono un accordo per la realizzazione dell'oleodotto sino-kazako, lungo oltre tremila chilometri che collega il terminale di Atyrau, sulla costa settentrionale del mar Caspio, alla città di Alashankou, nello Xinjiang (Ansalone 2008, pp ). Inoltre nello stesso anno, la Cnooc offrì 18,5 miliardi di dollari per acquistare la Unocal Corporation, una società statunitense centenaria, che possiede enormi risorse di petrolio e gas naturale in Nord America e in Asia. Questo gesto sconvolse tutti gli attori internazionali, in 38

39 quanto segnava l'ingresso della Cina tra le potenze mondiali e la poneva in diretta competizione con una delle più grandi compagnie petrolifere, l'americana Chevron Corporation, che aveva già presentato una sua offerta, tra l'altro più bassa di quella cinese, per l'acquisto della Unocal. Non da ultimo, la proposta cinese rappresentava il tentativo da parte del governo di Pechino di controllare un colosso energetico americano, fatto che allarmò i grandi protagonisti del settore (Klare 2010, p. 17). Per quanto concerne il mercato africano, esso non venne tralasciato e fu un banco di prova importante per i tre colossi cinesi. La Cnpc ottenne diritti di esplorazione nel sud del Ciad e in Etiopia occidentale, la Cnooc acquistò il 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che possiede importanti giacimenti offshore (Panozzo 2006b). La Cnpc si impadronì di più del 40% della Greater Nile Petroleum Operating Company sudanese, mentre la Cnooc ottenne diritti di esplorazione in Kenya (Cellamare 2013 pp ). 1.2 Il fenomeno dei teapot Circa tre anni fa, nel 2015, emersero dei nuovi partecipanti nel mercato petrolifero cinese, i teapot. Questo soprannome venne attribuito ai piccoli raffinatori indipendenti di petrolio, in primo luogo per le loro dimensioni particolarmente ridotte e secondariamente perché più inefficienti e rudimentali rispetto alle compagnie statali. Inizialmente infatti, la loro capacità di raffinazione variava da 20 mila a 100 mila barili al giorno e rappresentava una parte estremamente piccola del totale (Meidan 2017, p. 1). L'80% di essi ha sede nello Shandong e si tratta di produttori privati indipendenti di benzina e gasolio, che iniziarono a raffinare piccole quantità di greggio da distribuire a livello locale. Con il passare del tempo però, essi si ingrandirono sempre più, fino a occupare un ruolo rilevante nel mercato, importando nel 2016 un milione e 200 mila barili di greggio al giorno, ovvero il corrispondente del 15% delle importazioni totali di petrolio cinesi e, nel settembre 2016, la metà della produzione di greggio angolana era destinata ai teapot. Inoltre, la loro capacità di raffinazione corrisponde a un quinto del totale e ha contributo all'aumento delle importazioni cinesi, fatto che comportò il rialzo delle quotazioni dell'idrocarburo dai minimi a cui erano arrivate (Pilati 2016). In principio, i teapot compravano il greggio dalle tre grandi compagnie statali cinesi, lo trasformavano in benzina e gasolio e infine lo rivendevano alle stesse. Dopo qualche tempo, però, essi ottennero dal governo il permesso di importare la materia prima e questo ne decretò l'autonomia (Pilati 2016). Tuttavia, i commercianti esteri erano molto cauti nel trattare con i teapot, non davano loro piena fiducia, in quanto tali produttori non erano controllati dallo stato e 39

40 mancavano di una consolidata esperienza professionale. Per ovviare a questi problemi, sedici teapot si raggrupparono in un'associazione, la China Petroleum Purchase Federation of Independent Refineries guidata dalla Shandong Dongming Petrochemical, la più grande tra i teapot, con lo scopo di aumentare il loro potere di acquisto e la loro forza nella trattativa (Phua 2016). Questo ha portato loro a godere, oggi, di un grande successo che ha permesso loro di esportare anche prodotti finiti e venderli alle compagnie occidentali. I teapot sono ormai diventati delle figure essenziali nel mercato petrolifero in quanto rappresentano una domanda significativa di materia prima (Pilati 2016). Riguardo a questo fenomeno si hanno diversi punti di vista. Alcuni sostengono che i teapot si siano sviluppati e abbiano avuto successo in quanto, il governo di Pechino sta attuando una politica orientata allo stoccaggio di energia al fine di mantenere la propria sicurezza energetica, e quando tali sforzi rallenteranno anche la crescita dei produttori indipendenti rallenterà (Phua 2016). Per altri, l'entrata nel mercato dei teapot è un fenomeno da non sottovalutare poiché ha portato a un aumento nella vendita e, di conseguenza, anche nell'estrazione del greggio che potrà causare un surplus dell'offerta rispetto alla domanda nel momento in cui le raffinerie saranno saturate e impegnate a raffinare la materia acquistata in precedenza. Qualcun altro invece vede l'aumento della domanda causata dai teapot come un fenomeno positivo che recherà benefici sia agli importatori che agli esportatori, citando al riguardo la compagnia saudita di idrocarburi, Aramco, che nell'aprile 2016 ha venduto un cargo con circa 730 mila barili, a una raffineria indipendente cinese (Bottarelli 2016) e la Shandong Dongming Petrochemical che nei primi otto mesi del 2016 ha acquistato circa 5 milioni di tonnellate di greggio (Picello 2016). Altri ancora sostengono che i teapot abbiano reso il mercato cinese più interessante, attirando investimenti stranieri. Ne è un esempio il contratto firmato con due imprese del Qatar per l'acquisto del 49% della Shandong Dongming Petrochemical e questo denaro, pari a 5 miliardi, verrà utilizzato per finanziare le costruzioni di mille stazioni di servizio in sei province cinesi e di un terminale per la rigassificazione del gas naturale liquefatto a Qinzhou (Phua 2016). 1.3 Il petroyuan Oltre al fenomeno appena descritto, quest'anno c'è stata un'altra considerevole novità nel mercato petrolifero, il lancio del petroyuan, che va a porsi come alternativa al petrodollaro. Il dollaro è stato il principale attore nel mercato economico mondiale per più di quarant'anni e l'entrata in scena del petroyuan sta minacciando la stabilità di questo scenario. Il petroyuan ha 40

41 infatti dato l'avvio a una lunga fase mirata alla de-dollarizzazione del mercato petrolifero mondiale e con esso, la Cina punta a internazionalizzare lo yuan e a occupare il ruolo che le spetta in tale mercato data la sua attuale influenza economica. La sostituzione del dollaro era già stata voluta e preannunciata, nel settembre 2017, dal Venezuela, che allo scopo di rilanciare la sua industria mineraria, scelse di aprire un nuovo paniere di monete costituito in particolare dallo yuan e dal rublo per non dover più utilizzare il dollaro. Dal 26 marzo 2018, la borsa di Shanghai ha iniziato a vendere futures sul petrolio denominati in yuan. L'entrata nel mercato di questi nuovi futures porterà i grandi produttori di petrolio, quali la Russia o l'iran, a commerciare direttamente con Pechino utilizzando la propria valuta locale o lo yuan, evitando quindi il passaggio al dollaro (Muratore 2017). Questo getta le basi per le negoziazioni finalizzate a promuovere i futures nelle due valute. Inoltre, i petroyuan sono convertibili in oro e forniscono un parametro del mercato petrolifero per determinare i prezzi internazionali che sia differente dai due attualmente in uso, ovvero dal Brent, quotato a Londra, e dal West Texas Intermediate, quotato a New York. Si cerca quindi di rinforzare la capacità cinese di stabilire il prezzo del greggio puntando alla riduzione della volatilità sul mercato delle materie prime che rappresenta un notevole problema per i grandi importatori. In aggiunta, il governo di Pechino sta incalzando l'arabia Saudita con la richiesta di accettare gli yuan come valuta per l'acquisto del petrolio. In caso essa acconsentisse, verrebbe a rompersi il legame stipulato nel 1970 con l'america, per cui i sauditi erano costretti ad accettare solamente i dollari per il pagamento del petrolio e investirli poi esclusivamente nei canali finanziari americani, e ciò causerebbe uno sconvolgimento nella struttura del petrodollaro che si basa sull'integrità del legame tra il dollaro e il petrolio dell'opec, il cui massimo esponente è appunto l'arabia Saudita (Gabellini 2018). Lanciare il proprio mercato petrolifero vorrebbe dire per la Cina avere più peso sui mercati energetici e determinare un prezzo dell'oro nero maggiormente allineato alle condizioni di domanda e offerta interne (Capozzi 2018). Non si tratta tuttavia di una sfida facile. Nel 1993, venne effettuato un primo tentativo che però fallì, a causa dell'estrema volatilità dei cambi e della debolezza dello yuan, la fortuna di una moneta dipende infatti dall'economia che rappresenta, e negli anni Novanta l'economia cinese non poteva competere con quelle internazionali. Oggi, però, essa è diventata alquanto importante e il progetto infatti sembra avere successo, tanto che il primo giorno di negoziazione si è chiuso con un fatturato totale pari a 18,3 miliardi di yuan, ovvero 2,9 miliardi di dollari (ibid, 2018). 41

42 2. Gli interessi petroliferi cinesi in Africa Come riportato dalla BP Statistical Review of World Energy, pubblicata annualmente dalla British Petroleum, a fine 2016 le riserve petrolifere africane di cui è stata accertata l'esistenza ammontavano a quasi 17 miliardi di tonnellate, la produzione era pari a circa 375 milioni di tonnellate e il consumo a 185 milioni di tonnellate (BP statistical review of world energy June 2017). L'evidente disparità tra risorse possedute e risorse consumate nel territorio stesso è un dato evidente dell'importanza dell'africa nel soddisfare la domanda energetica delle economie sviluppate e in via di sviluppo e che rende ancora più chiaro il motivo della corsa dei vari paesi alle risorse africane, tra i quali non può non essere presente la Cina. La Repubblica Popolare è molto attiva in Kenya, dove, nel 2006, ha firmato numerosi accordi per la ricerca di giacimenti petroliferi sia offshore che sulla terraferma. Ancora oggi gli investimenti in questo stato sono alti, nel 2017 infatti, i prestiti bilaterali concessi dalla Cina hanno raggiunto il valore di 4,4 miliardi di euro e in cambio a essa furono destinate le prime esportazioni di greggio (Nofori 2018). Nel giugno 2009, la RPC firmò un nuovo contratto dal valore di 5 miliardi di dollari con il Niger per lo sviluppo del campo petrolifero Agadem, la cui riserva è attestata a più di 300 milioni di barili (AGE 2009, p. 43). Attualmente la Cnpc gestisce tre progetti in attività di upstream, ovvero le attività a monte che consistono nelle fasi di esplorazione, perforazione ed estrazione, e downstream, ovvero le attività a valle che riguardano la raffinazione e la distribuzione dei prodotti derivati, nel campo di Agadem. La compagnia sinica spera di apportare il proprio giusto contributo alla Cina, al Niger e alla lunga amicizia dei due popoli impegnandosi in progetti di cooperazione petrolifera (Cui Mo 2018). La Somalia è uno tra i porti importanti per i prodotti petroliferi interni e per questa ragione, la Cina ha deciso di investirvi denaro per ammodernarne le infrastrutture. Inoltre, nel novembre 2016, il presidente del Puntland, regione nordorientale somala, ha firmato un accordo con la China Civil Engineering Construction Corporation che prevede la concessione esplorativa di petrolio e gas in due blocchi del territorio in cambio della costruzione dell'aeroporto di Gallacaio (Somalia: President Ali signs deals with a Chinese company). Un altro stato africano nel quale la Cina ha investito importanti somme è l'algeria. Nella regione di Adar, è stata costruita la prima raffineria cinese che ha permesso al gigante asiatico di aumentare la 42

43 sua capacità nazionale petrolifera a 600 mila tonnellate annue. Ad Algeri, sono stati aperti uffici di rappresentanza e succursali della Cnpc e Sinopec (Soualah 2014). Due anni fa, è stato firmato un accordo da 3,3 miliardi di dollari per la costruzione e la gestione di un nuovo porto per trasbordo vicino ad Algeri, da completare entro sette anni. Con la costruzione di 23 banchine si riusciranno a movimentare 26 milioni di tonnellate di merci all'anno per le vendite all'estero, costituite al 97% da greggio e gas (Algeria: accordo con la Cina per un mega porto da $3.3 miliardi). Inoltre, la presenza di più di 40 compagnie petrolifere siniche alla North-Africa petroleum exhibition and conference svoltasi a fine marzo 2018, ha confermato il rinnovato interesse per il mercato algerino. Le società cinesi sono ben viste dagli algerini che le reputano sia molto competitive nel settore del petrolio e del gas, fonte di sostentamento dell'algeria, sia molto esperte grazie alla loro consolidata presenza nel mercato in questione (Chinese oil firms show interest in Algerian market at North Africa petroleum exhibition conference). Di fondamentale importanza sono le relazioni allacciate con l'angola, il Sudan e la Nigeria, in quanto questi stati rappresentano i tre principali importatori di petrolio per la Cina e hanno costituito banchi di prova interessanti nonché modelli per la strategia di penetrazione economica attuata della Repubblica Popolare. 2.1 L'Angola e il modello Angola Nel febbraio 2018, il primo ministro cinese Wang Yi durante una visita in Angola ha avuto modo di sottolineare come i 35 anni delle relazioni diplomatiche sino-angolane siano stati un periodo di cooperazione strategica, mutuo beneficio e profonda amicizia. Ha inoltre ricordato che attualmente la Cina, non solo è diventata il primo partner commerciale dell'angola, ma anche il mercato più ampio in cui esportare petrolio e la più grande fonte di finanziamenti. Nonostante ciò, i due paesi mirano a intensificare ancora di più la collaborazione, a rinforzare la reciproca fiducia politica, e a cercare nuovi metodi di cooperazione lungo l'asse della cooperazione vincente-vincente e del vantaggio reciproco (Wang Yi: innovating thoughts to promote transformation and upgrading of China-Angola cooperation). L'Angola è diventata in poco tempo uno dei principali partner economici cinesi, rimanendo stabilmente tra i primi tre fornitori di Pechino. Nel 1999, vennero importati in Cina dall'angola, 43 mila barili al giorno, e nel 2003 divenne la terza più grande fonte di importazione di petrolio. Dal 2002 al 2004, il 20% delle importazioni petrolifere cinesi era fornito da questo stato africano. Nel 2004, anche a seguito degli accordi firmati con la Exim Bank, le esportazioni di petrolio angolano verso la Cina toccarono il valore di 4,7 miliardi di dollari, che corrispondeva al 33% del petrolio 43

44 acquistato dai cinesi in Africa e al 25% della produzione angolana. Questo ha permesso all'angola di diventare il terzo fornitore di petrolio della Repubblica Popolare. L'anno successivo, il greggio acquistato in Angola fu ben il 45,5% di quello acquistato nel continente (Basta 2011). Nei primi sei mesi del 2006, il paese africano superò l Arabia Saudita diventando, in quel periodo, il principale mercato d'acquisto di oro nero per la Cina, con una quota di circa 500 mila barili al giorno corrispondente al 18% del totale delle importazioni cinesi (AGE 2009, p. 37). L importante traguardo è stato nuovamente raggiunto tra la fine del 2007 e l inizio del Nel 2008, la produzione dell'idrocarburo in questione ha superato i 2 milioni di barili al giorno, e l'anno successivo l Angola si è guadagnata il titolo di primo produttore di petrolio del continente nero. Essa possiede infatti vaste riserve petrolifere, stimate ad almeno 9 miliardi di barili di greggio, che la classificano diciassettesima riserva di petrolio al mondo ed equivalgono quasi al doppio delle riserve sudanesi. La RPC è diventata il primo acquirente di petrolio angolano solo nel 2008, anno in cui ha superato gli Stati Uniti, fino ad allora principali compratori, aggiudicandosi il 33% delle esportazioni, ma nel 2009 gli statunitensi sono tornati ad essere al primo posto. Nel 2008, l'angola è diventato il primo partner commerciale della Cina nel continente, con scambi laterali dal valore di 24 miliardi di dollari (Basta 2011). Il governo di Pechino ha confermato questa sua posizione nel 2013, oltrepassando i 27 miliardi di euro di interscambio bilaterale, valore che corrisponde a più del doppio del commercio tra l'angola e l'intera Unione Europea, secondo partner dello stato africano, pari a 12,7 miliardi di euro (Meoni 2014). Quando i cinesi sono entrati nel mercato angolano, vi era già una forte presenza di paesi occidentali che, nonostante non sfruttassero al massimo le riserve petrolifere locali, avevano da tempo portato lo stato africano a diventare un importante esportatore e produttore di petrolio. Sin dalla dominazione portoghese, erano infatti presenti in Angola numerose compagnie petrolifere internazionali, quali Total, Eni, Chevron, British Petroleum e Shell, che resero più difficile la penetrazione delle aziende cinesi dovendosi affermare in un mercato alquanto competitivo (Basta 2011). La strategia sinica consisteva nel concedere investimenti diretti, dando vita a un nuovo modello di scambi commerciali, e mise sempre in primo piano il principio di non ingerenza, fattore che le permise di porsi come valida alternativa ai governi occidentali e americani. Terminata la guerra per la decolonizzazione, l'angola fu segnata da un altro terribile conflitto, che sconvolse il paese dal 1975 al 2002, la guerra civile. Essa vide contrapporsi i ribelli dell'unione 44

45 nazionale per l'indipendenza dell'angola (Unita) sostenuto da Savimbi e affiancati dal fronte nazionale per la liberazione dell'angola, al movimento popolare per la liberazione dell'angola (Mpla) di Neto e Dos Santos, supportato da sovietici e cubani. In questo teatro di guerra, la Cina si schierò dalla parte dell'unita che aveva già sostenuto in precedenza, durante la guerra per l'indipendenza dal colonialismo, soprattutto in funzione antisovietica. Alla fine della guerra civile, l'angola stava trattando nuovi finanziamenti, per la riparazione dei danni causati dal conflitto, con il Fondo Monetario Internazionale. Questo organismo imponeva la trasparenza nella gestione dei fondi concessi, per ovviare al problema della corruzione, tuttavia tale clausola non era affatto gradita dal governo del presidente angolano Dos Santos, in carica dal 1979 al Fu in quel contesto, che la Exim Bank fece una sua proposta, finanziariamente più conveniente e senza clausole di trasparenza, che consisteva nella concessione di una linea di credito di 2 miliardi di dollari, da restituire in 17 anni tramite forniture di petrolio. Questa offerta fu subito accettata e aprì la strada al fiorente futuro dei rapporti sino-angolani (Basta 2011). Così in cinque anni, dal 2002 al 2007, l'angola fornì alla Cina oro nero per un totale equivalente al 14-20% delle importazioni cinesi di tale combustibile a livello mondiale, e alla metà del petrolio acquistato sul continente nero. In cambio, le banche siniche hanno donato 7 miliardi di dollari al paese africano attraverso linee di credito a tassi preferenziali. Inoltre, grazie a queste donazioni la Cina è riuscita a garantirsi una sicurezza energetica e ha ampliato i suoi fornitori di greggio. Dal suo canto, l'angola è riuscita a ricostruire strade e infrastrutture distrutte dalla guerra. A partire da questi dati si può ricostruire la strategia di penetrazione cinese, il cosiddetto modello Angola, ovvero generosi aiuti economici in cambio di petrolio e contratti di costruzione di infrastrutture, che per il 70% devono essere destinati ad aziende cinesi. Il modello Angola, chiamato così perché fu sperimentato per la prima volta in tale paese durante la guerra civile, può essere sintetizzato nella formula: risorse per infrastrutture. Esso prevede l'elargizione di un'ingente somma di denaro da parte della Cina che verrà restituita tramite contratti di costruzione o materie prime. In altri termini, il prestito in denaro non viene trasferito direttamente al governo beneficiario ma viene stipulato un accordo riguardante la realizzazione di infrastrutture da parte di imprese di costruzione cinesi. Siccome l'angola è un paese ricco di risorse naturali, tra cui la principale fonte è il petrolio, l'ammortamento del credito può anche avvenire utilizzando questa materia prima. Una compagnia petrolifera sinica viene quindi autorizzata allo sfruttamento di un giacimento, mentre il governo angolano affida a un'azienda di costruzioni cinese l'esecuzione del progetto infrastrutturale con il supporto economico della Exim Bank, e il pagamento del credito avviene tramite il petrolio estratto dalla compagnia sinica. Tale modello coinvolge quindi quattro 45

46 soggetti, tre dei quali cinesi, e tra i quali avvengono le operazioni più importanti. La Exim Bank riceve, infatti, il pagamento in petrolio a copertura del credito concesso all'azienda di costruzione cinese per la realizzazione del progetto. Il governo angolano si limita invece a concedere il permesso di estrazione e a presentare il progetto (Patassini 2012, p. 144). Un esempio di utilizzo del modello Angola è la realizzazione della Nova Ciudade de Kilamba. La Cina ha finanziato la costruzione dal nulla di un'enorme città, a 30 chilometri dalla capitale Luanda, da parte di un'azienda di investimenti pubblica cinese. Tale progetto fu concluso in soli tre anni, nel 2012, a un costo di 3,5 miliardi di dollari. I fondi, sono stati messi a disposizione dalla Industrial and commercial bank of China in cambio del petrolio (Meoni 2014). Un altro evento che aiutò l'inserimento della Cina nel mercato angolano fu la scoperta del cosiddetto Angolagate. Durante la guerra civile, il Mpla aveva bisogno di armi e le chiese alla Francia che sfruttava i giacimenti di petrolio nei suoi territori. Il trafficante d'armi Pierre Falcone gli fornì, tra il 1993 e il 1994, materiale militare per un valore di 663 milioni di dollari, grazie al quale il Mpla sconfisse Savimbi e il suo esercito. Tuttavia il paese europeo non poté godere della vittoria in quanto, la scoperta di questo commercio non autorizzato, fece scoppiare uno scandalo che portò all'arresto, nel 2000, di Falcone per commercio illecito di armi e frode (Michel e Beuret 2009, pp ). In seguito a questo scandalo, nel 2004, la compagnia francese Total venne estromessa dalla sua parte del blocco 3 e il suo posto fu occupato nel febbraio 2005 dalla Sinopec che ebbe così la possibilità di entrare nel mercato offshore angolano e di formare una nuova entità col nome di China-Angola Petroleum, oggi conosciuta come Sonangol-Sinopec International, una joint venture posseduta al 75% dalla Sinopec e al 25% dall angolana Sonangol. La prima compagnia cinese a entrare nel mercato angolano fu proprio la Sinopec tramite l'acquisto di quantità sempre più elevate di petrolio e successivamente collaborando a progetti di produzione e di raffinazione (AGE 2009, p. 37). Il primo progetto fu incentrato sul blocco 18, dei giacimenti offshore situati a nord-ovest di Luanda. La Sonangol Sinopec International acquistò il 50% dei diritti di sfruttamento di quest'area, condividendoli con la British Petroleum e sottraendoli alla compagnia indiana Oil and Natural Gas Coporation, alla quale sembrava fosse destinata la quota del blocco 18. Nel 2005, tramite lo stesso meccanismo, la Sinopec si sostituì alla Total nello sfruttamento del blocco offshore 3/80. Tra la fine del 2005 e la metà del 2006, la compagnia cinese acquistò diritti di sfruttamento anche nei blocchi 3/05 e 3/05A, e offrì 750 milioni di dollari all'eni per il 20% del blocco offshore 15. Inoltre, utilizzando due bonus del valore ognuno di 1,1 miliardi di dollari, la Sonangol Sinopec International ha acquisito il 27,5% e il 40% dei blocchi 17/06 e 46

47 18/06. Tuttavia, vi sono anche degli insuccessi nella storia della Cina in Angola. Quello più grande riguarda la raffineria di Lobito. La Sinopec si rese disponibile per la costruzione di tale complesso, insieme alla Sonangol, con un progetto da 3,5 miliardi di dollari, con l'obiettivo di rendere possibile la raffinazione di 200 mila barili di greggio al giorno, triplicando così le capacità di raffinazione dello stato africano. Nove mesi dopo l'annuncio della cooperazione, nel febbraio 2007, però, il governo angolano annunciò il ritiro dei cinesi dal progetto in quanto le due parti non riuscirono a giungere a un accordo. La Sinopec voleva infatti destinare i prodotti raffinati al mercato cinese, mentre la Sonangol voleva rivenderli sul mercato angolano e sui vari mercati africani (Basta 2011). Il petrolio è la principale fonte di sostentamento dell'economia angolana. Il Pil pro capite toccò il punto più alto nel 2008, quando appunto i prezzi del greggio raggiunsero il massimo storico di 147 dollari al barile, permettendo all'economia locale una crescita del 13,2%. Nel 2009, l'angola è diventata il primo produttore di petrolio di tutta l'africa, superando Libia e Nigeria. La causa di tali successi è in gran parte riconducibile agli aiuti sinici. Con l'emissione della prima parte del credito della Exim Bank, nel 2004 di 2 miliardi di dollari, il Pil angolano è cresciuto del 20,6% continuando a crescere a un ritmo simile negli anni seguenti, grazie all'aggiunta di un altro prestito pari a un miliardo di dollari nel marzo 2006 a cui ne seguì, tre mesi dopo, un altro dal valore di 2 miliardi (Basta 2011 e AGE 2009, p. 37). 2.2 Il caso del Sudan e la guerra del Darfur Il Sudan fu uno dei primi stati africani a riconoscere il governo di Pechino nel 1959, e da allora i rapporti tra i due paesi continuarono a rafforzarsi sempre più, con una particolare attenzione al settore petrolifero. Lo stato africano diventò sia uno dei primi destinatari degli investimenti sinici, portando la Cina a essere il più grande investitore in Sudan, sia uno dei paesi africani con il quale Pechino intrattiene più scambi commerciali. Non è quindi un caso che tra le quindici compagnie petrolifere presenti in Sudan, tredici siano cinesi. Il Sudan fornisce il 7% di tutte le importazioni siniche di petrolio e oltre il 60% della sua produzione è esportato nella RPC facendo di esso il secondo fornitore africano di oro nero. L'entrata della Repubblica Popolare in Sudan è avvenuta in un periodo storico alquanto difficile, ovvero durante la seconda guerra civile sudanese tra Nord e Sud per il controllo del territorio e delle sue ricchezze. Nel 1978 la compagnia americana Chevron scoprì nel sud del paese un grande pozzo petrolifero, evento che portò il dittatore Nimeiri a cercare di modificare le frontiere con le province del sud per garantire al nord l'accesso a tale giacimento. Questa mossa però scatenò la ribellione del 47

48 Sud al regime di Naimeri, nel 1983, dando inizio alla guerra. Nel giugno 1989, il governo islamico prese il potere al Nord tramite un colpo di stato militare guidato dal colonnello Bashir che divenne presidente dello stato. Due anni dopo, Bashir assicurò l'appoggio sia a Saddam Hussein che a Bin Laden, ragione per la quale gli americani considerarono il Sudan uno dei governi sostenitori del terrorismo internazionale. Di conseguenza, lo stato africano fu sempre più isolato e gli vennero imposte sanzioni sia dall'america che dall'onu, ma mentre quelle di quest'ultimo erano relative solo al divieto dei voli della compagnia aerea sudanese, quelle degli americani furono più severe. Una di esse fu il divieto di investire nel Sudan e gli scambi commerciali tra i due paesi furono bloccati. Neppure il settore petrolifero fu escluso dall'embargo, dichiarato nel 1997 dal presidente Clinton e voluto dall'opinione pubblica, che era contraria al coinvolgimento delle aziende nazionali in situazioni di guerra e in casi di violazione dei diritti umani, per cui le compagnie che avevano già da tempo ottenuto le concessioni per esplorare e sfruttare i giacimenti, ma che si erano ritirate dal territorio sudanese a causa della guerra civile, non poterono più ritornarvi. L'uscita degli americani dal mercato petrolifero fu presto colmata da altre società, tra le quali la Cnpc che, non dovendo rendere conto a nessuno del proprio operato, continuò liberamente le proprie attività mentre il governo di Pechino pagava il petrolio in armi. I cinesi capirono subito che, a differenza dell'angola che aveva un settore petrolifero già avviato, il Sudan aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a mettere in piedi un'industria petrolifera, in quanto da solo non era in grado di sfruttare le sue risorse, perciò incentrarono i loro aiuti in questa direzione. Nel 1997, essa deteneva il 40% del neonato consorzio tra varie società petrolifere, la Greater Nile Petroleum Operating Company, al quale era stato concesso lo sfruttamento dei blocchi 1, 2 e 4 e la costruzione di un oleodotto per trasportare il greggio da Port Sudan al Mar Rosso dove fu costruita una nave da cargo. Nel settembre 1999, questa nave piena di petrolio fu pronta a salpare verso la Cina, consacrando l'entrata del Sudan nei produttori di petrolio (Gardelli 2010, p. 46). Inoltre, La Cnpc controlla al 95% la concessione per il blocco 6, al 41% quelle per i blocchi 3 e 7 e possiede il 41% della Petrodar operating company, nata per esplorare i blocchi 7 e 8, tutte aree che si trovano al confine tra il Sudan e l'attuale Sudan del Sud. La compagnia cinese ha inoltre ampliato la raffineria di Khartoum, in grado di trattare il greggio estratto in Sudan che per le sue qualità non può essere lavorato nelle raffinerie cinesi, e ha investito 3 miliardi di dollari per la costruzione di raffinerie e oleodotti. Durante gli ultimi anni di guerra civile, scoppiò un altro terribile conflitto, la guerra del Darfur, durante la quale la Cina giocò un ruolo importante anche a livello politico, andando a minacciare l'integrità del suo stesso principio di non interferenza, punto principale della sua politica estera. 48

49 Il conflitto ebbe inizio nel febbraio 2003 e la Cina vi partecipò vendendo armi al governo di Bashir per combattere contro i popoli del Darfur ricevendo in cambio petrolio. Infatti, più l'importazione di petrolio cinese dal Sudan aumentava, più proporzionalmente aumentava la vendita di armi a questo stato (Manyok 2015, p. 4). Nel 2005 la Cina esportò armi nello stato africano per un valore di quasi 100 milioni di dollari. Questo rafforzò notevolmente i rapporti tra il governo di Khartoum e quello di Pechino favorendone una proficua collaborazione che portò la RPC a esportare il 65% del greggio sudanese nel 2011, coprendo così il 5% del suo fabbisogno (Brighi, Panozzo e Sala 2011, pp ) e il Sudan poté beneficiare di generosi aiuti economici che fecero crescere il Pil del paese e crearono ricchezza. Nell'estate 2004, i paesi occidentali e americani avevano ormai compreso che tale guerra era un genocidio e proposero quindi al Consiglio di sicurezza l'attuazione di sanzioni economiche ai principali esponenti del governo sudanese e un embargo sul settore petrolifero e sugli armamenti per migliorare la situazione, ma la Cina pronta a difendere il suo primo fornitore di greggio africano a livello internazionale, si oppose difendendo il Sudan da tutte le accuse di violazione dei diritti umani e di genocidio nella regione del Darfur. Nel 2005, la RPC si oppose anche alla proposta dell'onu di sanzionare il governo sudanese e minacciò l'uso del veto contro l'invio di una forza miliare internazionale nella regione. Chiedere il non intervento da parte di nazioni estranee, in nome della non ingerenza negli affari interni di uno stato, e allo stesso tempo vendere armamenti a uno degli schieramenti militari, assumendo così una sua posizione nel conflitto, ha fatto emergere dei dubbi sull'integrità del principio di non interferenza. Pechino ha risposto alle accuse sostenendo che la vendita di armi era volta alla protezione delle attività petrolifere che non riguardavano soltanto la Cina (Cellamare 2013, p. 10 e 63). Inoltre, nello stesso anno, la Cina si oppose a una risoluzione dell'onu che autorizzava la Corte penale internazionale a processare Bashir e tutti coloro che lo avevano appoggiato nella strage del Darfur (Manyok 2015, p. 2). A partire dall'anno successivo, nel 2006, gli attacchi alle compagnie cinesi e ai suoi operai da parte dei ribelli meridionali al governo centrale, hanno portato la Cina ad agire autonomamente e a intromettersi così negli affari interni sudanesi, in quanto il governo di Khartoum non era in grado di proteggere gli interessi cinesi (Basta 2011). La continuazione dei conflitti in Sudan ha portato Pechino a violare nuovamente il principio di non interferenza, approvando la risoluzione 2046 del Consiglio di sicurezza dell'onu del 2012, che chiedeva l'immediata fine dei combattimenti tra il Sudan e il neonato Sud del Sudan (Cellamare 2013, p. 77). È proprio per questi motivi che il caso del Sudan è diventato importante a livello internazionale, poiché è stato grazie agli aiuti economici di Pechino, al suo appoggio a livello diplomatico e agli 49

50 armamenti forniti, che il governo di Khartoum ha potuto dare vita alla sua operazione bellica che altrimenti non sarebbe stata possibile. Inoltre, queste guerre sudanesi sono state oggetto di una grande attenzione mondiale che ha portato molti paesi a considerare i cinesi alleati di Bashir e complici del genocidio del Darfur, diffondendo ostilità nei confronti del governo di Pechino e minacciando il boicottaggio delle Olimpiadi del 2008 che si sarebbero dovute svolgere nella capitale cinese. La somma di questi fattori ha indotto la Cina a rivedere la sua politica di penetrazione nello stato africano, a effettuare un cambio di rotta a livello diplomatico e ad allentare i suoi legami con il regime di Bashir o, perlomeno, sostenere gli sforzi del consigli di sicurezza nel sanzionare il governo di Khartoum. 2.3 Il terzo grande esportatore: la Nigeria La Nigeria possiede le più ampie riserve africane di petrolio e gas ed è infatti il più grande produttore africano, occupando l'undicesima posizione nella classifica mondiale. Il petrolio ha quindi un ruolo fondamentale nell'economia nigeriana e copre l'80% delle entrate del governo che però non vengono utilizzate al meglio a causa della corruzione politica. I primi rapporti sino-nigeriani iniziarono nel 1971, ma conobbero un periodo particolarmente favorevole dal 1999 al 2007, sotto il presidente Obasanjo. Egli infatti applicava la politica del petrolio in cambio di infrastrutture che prevedeva la messa all'asta di blocchi petroliferi e richiedeva agli offerenti cinesi di impegnarsi nei maggiori progetti infrastrutturali nigeriani, tra i quali ad esempio la riabilitazione della raffineria di Kaduna, la costruzione di una ferrovia e di una centrale idroelettrica. Tale politica fu creata dal governo nigeriano poiché la cooperazione cinquantenaria con l'occidente non portava cambiamenti e da Obasanjo in persona che era rimasto impressionato dalle infrastrutture viste in Cina (Mthembu-Salter 2009, pp. 1-2). La Repubblica Popolare è quindi diventata il principale finanziatore dello sviluppo infrastrutturale nigeriano, fornendo prestiti per costruire strade, ponti, aeroporti, linee ferroviarie e centrali, mentre allo stesso tempo la Nigeria diventava un cliente molto importante delle società di costruzione siniche (Veglio 2015). Inoltre, era intenzione di Obassanjo stabilire nuove relazioni, e l'occasione si presentò nel gennaio 2000, quando incontrò il Ministro degli esteri cinese per discutere del coinvolgimento sinico nell'industria petrolifera nigeriana e aumentare la collaborazione nel settore della difesa. L'anno successivo una società affiliata alla Cnpc vinse un appalto per prospezioni geofisiche in due località nigeriane. Nel 2005, la Petro China firmò un accordo da 800 milioni di dollari con la Nigerian 50

51 national petroleum corporation che prevedeva l'acquisto di 30 mila barili di petrolio al giorno per cinque anni. Nel 2006, la Cnooc acquistò il 45% del giacimento offshore di Akpo, diretto dalla Total, nel Delta del Niger, mentre qualche mese più tardi la Cnpc si aggiudicò per 2 miliardi di dollari il 51% della partecipazione nella raffineria di Kaduna e la licenza per quattro blocchi petroliferi. (AGE 2009, pp ). Con la sostituzione del presidente nigeriano, anche tale politica cessò, costringendo i cinesi a cambiare modalità di investimento. Alle infrastrutture vennero preferiti i soldi e fu così che nel 2009, la Sinopec aprì la strada al modello della futura collaborazione sino-nigeriana acquistando per 7,2 miliardi di dollari la compagnia canadese Addax, il maggior produttore indipendente di greggio (Mthembu-Salter 2009, pp. 1-3). Il possedere tale compagnia ha permesso alla Cina di controllare non solo i maggiori cespiti petroliferi in Nigeria, tra cui due giacimenti offshore e uno onshore, ma anche giacimenti in Gabon, nel Golfo di Guinea, in Camerun e nel nord dell'iraq. Inoltre, ha dato una maggiore libertà alla Repubblica Popolare nell'intrattenimento di rapporti commerciali con le varie realtà petrolifere del paese (AGE 2009, p. 44). Per la Repubblica Popolare, la Nigeria è importante per tre ragioni: possiede ricchi giacimenti di petrolio e riserve di materie prime, e infatti, le importazioni cinesi da tale stato riguardano al 90% il petrolio; è lo stato più popoloso quindi è un ottimo mercato dove esportare i propri prodotti; e infine è un alleato politico di altissimo profilo vista la sua importanza all'interno dell'unione Africana. Quando la Cina è arrivata in Nigeria, vi ha trovato numerose compagnie occidentali operative da lungo tempo. La RPC è dunque entrata nel mercato lentamente, firmando accordi di joint venture con le compagnie petrolifere locali, offrendo in cambio prestiti a basso interesse e un sussidio per i progetti di sviluppo. Tra il 1990 e il 1996 l'entità degli scambi commerciali è cresciuta di circa otto volte, triplicando ulteriormente dal 2000 al 2005 (Gardelli 2010, p. 81). Nel 2005 le aziende siniche hanno presentato le prime offerte per lo sfruttamento dei giacimenti promettendo in cambio la fornitura di aerei da combattimento e numerosi pattugliatori per proteggere le vie marittime del Delta del Niger, da dove proviene il 75% della produzione dello stato africano, che è anche la causa di fondo del conflitto che dagli anni Novanta a oggi colpisce la regione (Klare 2010, p. 220). L'entrata della Cina nel mercato nigeriano è anche avvenuta in un periodo critico per la Nigeria, la sua industria era infatti poco competitiva e il paese era prossimo alla deindustrializzazione. L'arrivo dei cinesi è stato quindi visto con entusiasmo e ha diffuso la convinzione che instaurare rapporti con Pechino porti grande beneficio (Gardelli 2010, p. 82). Lo schema di penetrazione è quindi molto simile a quello dei due stati precedenti, e appare come un intreccio delle due modalità sopra 51

52 descritte. Il metodo di penetrazione nel mercato si rifà al modello Angola, in quanto propone lo scambio di forniture di greggio con la costruzione di nuove infrastrutture, mentre riguardo al contesto storico, esso è simile a quello sudanese, ovvero il momento in cui la Cina entra nel mercato petrolifero è un periodo di forti tensioni locali e di alto rischio. Inoltre, in tutti e due i casi, la Repubblica Popolare aumenta i suoi aiuti militari ai paesi impegnati in guerre civili, opponendosi alla decisione degli Stati Uniti di scoraggiare la vendita di armi in questi stati, in nome della difesa dei diritti umani, violati nel caso della Nigeria, nella zona del Delta del Niger (Basta 2011). In aggiunta, si tratta di stati in cui la RPC rischia continuamente di infrangere il principio di non interferenza a causa delle guerre civili e del terrorismo. Per mantenere buoni rapporti con la Nigeria infatti, nel 2014, Pechino ha promesso soldati e aiuti per contrastare l'organizzazione terroristica Boko Haram e firmando al contempo un accordo da 10 miliardi di dollari per l'esplorazione dei giacimenti nel bacino di Bida (Peduzzi 2014). 52

53 CAPITOLO III L'ESTRAZIONE E LA LAVORAZIONE DEL PETROLIO 1. La fase di estrazione In seguito alla raccolta di informazioni sulla struttura di un bacino sedimentario mediante studi geologi e sondaggi esplorativi del sottosuolo, alla verifica della sua potenzialità petrolifera in base alla presenza di possibili trappole (40. 圈闭 quānbì) e alla conseguente decisione delle aree in cui ubicare i pozzi ritenuti necessari per la coltivazione dei giacimenti (61. 油藏 yóucáng) di un campo, si procede al perforamento di pozzi esplorativi, che confermeranno o meno la presenza del petrolio (47. 石油 shíyóu) (Mazzei 2009, p. 8). In caso affermativo verranno completati dei pozzi di produzione (43. 生产井 shēngchănjĭng), collocati in modo da assicurare l'estrazione della maggiore quantità possibile di petrolio dal giacimento e attrezzati per permettere la regolare produzione del petrolio (Pieri 1988, p. 197). Seppur semplici, i processi di estrazione, definiti coltivazione (26. 开采 kāicăi) nel linguaggio tecnico, sono lunghi e costosi, perciò devono essere effettuati nel modo più razionale ed economico possibile. Per procedere all'estrazione è necessario in primo luogo posizionare il sistema di perforazione. I sistemi di perforazione più importanti sono il sistema di perforazione a percussione (11. 顿钻钻井 dùnzuàn zuànjĭng) e il sistema rotary (8. 冲击回转钻探 chōngjí huízhuăn zuāntàn), o sistema a rotazione, che attualmente è il metodo più utilizzato in quanto più veloce ed efficiente. Quest'ultimo consiste in un impianto di estrazione formato da più elementi, tra i quali risalta la torre di trivellazione (74. 钻塔 zuàntă), in inglese derrick, alta fino a 50 metri, che, tramite un cavo, un gancio e un sistema di carrucole, sostiene una serie di aste di perforazione (71. 钻杆 zuàngăn). Questa serie è costituita da varie aste cave che vengono avvitate l'una dentro l'altra man mano che uno scalpello rotante (75. 钻头 zuàntóu) posto sul fondo del pozzo penetra nel terreno e tali aste hanno la funzione di collegare lo scalpello alla superficie. Il movimento di rotazione viene trasmesso alle aste e allo scalpello da un potente motore (Il petrolio - I giacimenti petroliferi, la ricerca petrolifera, la raffinazione del petrolio e Pieri 1988, pp ). La funzione dello scalpello è frantumare la roccia per procedere verso il giacimento e per adempiere al suo compito esso può avere varie forme e dimensioni a seconda delle caratteristiche della roccia, le tipologie più utilizzate sono gli scalpelli triconi (42. 三牙轮钻头 sānyálún zuàntóu). Normalmente la profondità di una perforazione varia da qualche centinaio di metri a 7 o 8 km. Utilizzando scalpelli di dimensioni progressivamente più ridotte, si crea un foro il cui diametro 53

54 decresce proporzionalmente all'aumentare della profondità. Man mano che la perforazione avanza, il foro viene rivestito con tubi di acciaio, operazione denominata casing (51. 石油套管 shíyóu tàoguăn), al fine di garantire la stabilità del pozzo, l'isolamento dello stesso dai livelli permeabili dei vari strati attraversati e per evitare che i fluidi contenuti in questi livelli entrino nel pozzo. In seguito, lo spazio tra i tubi e le pareti del foro viene riempito con del cemento di modo che l'acqua e gli idrocarburi non riescano a infiltrarsi in quello spazio vuoto. Questi tubi costituiscono la canalizzazione attraverso la quale il greggio (62. 原油 yuányóu) viene portato in superficie, perciò la continuità del loro rivestimento si interrompe in corrispondenza degli strati produttivi (44. 生产层 shēngchăncéng) in modo da consentire agli idrocarburi di penetrarvi e risalire (Liotta 2016 e Mazzei 2009, p. 12). Nelle aste cave rotanti viene iniettato un fango, denominato fango di perforazione (73. 钻井泥浆 zuānjĭng níjiāng), che svolge diverse importanti funzioni. Esso abbassa la temperatura della sonda di trivellazione, riduce l'attrito tra la roccia circostante e lo scalpello, dal quale esce tramite un apposito foro, e risalendo porta con sé i frammenti di roccia perforata. Giunto in superficie, il fango viene filtrato, per separarlo dal materiale litico recuperato e re-iniettato nel pozzo. Inoltre, data la sua composizione variabile a seconda delle caratteristiche di densità e durezza delle rocce da perforare, il fango controbilancia la pressione dei fluidi contenuti nelle rocce permeabili attraversate, impedendo che le acque presenti nelle rocce in profondità penetrino nel foro. Il fango serve anche per cementare le pareti del foro al fine di evitare eventuali crolli delle pareti del pozzo o la caduta dei detriti verso il fondo (Rotolo 2011). Quando con una perforazione si rompe la stabilità della roccia di copertura (15. 盖层 gàicéng), la pressione trova sfogo e i fluidi sono spinti a fuoriuscire con intensità variabile a seconda delle caratteristiche del giacimento (Sapere: Enciclopedia). I fluidi presenti in una roccia serbatoio (10. 储集层 chŭjícéng) sono gas, olio e acqua. Essi tendono a disporsi in strati a causa della loro differente densità. Tipicamente, un giacimento presenta una massa di gas libero intrappolato nella parte superiore della struttura, al di sotto della quale vi è una zona satura di petrolio, che si trova a sua volta sopra una zona formata da acqua (Eni 1963, vol. 2, p. 632). Questi fluidi sono sottoposti a una pressione, detta pressione di strato o pressione di giacimento, causata da tre fattori: la pressione idrostatica, data dal peso dell'acqua che impregna la roccia serbatoio; la quantità di gas in soluzione nel petrolio; e la presenza di una cappa gassifera (36. 气顶 qĭdìng), gas cap, ovvero l'accumulo di gas libero nella parte più alta del giacimento. Alle volte può capitare che perforando la roccia di 54

55 copertura, il gas e il petrolio fuoriescano improvvisamente a seguito dello sfogo della pressione, provocando un'eruzione incontrollata. Per evitare tale situazione, di norma, si colloca all'imbocco del pozzo un sistema di valvole, denominato albero di natale (5. 采油树 căiyóushù), a causa della sua forma, che serve a regolare il flusso del petrolio in superficie (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, p. 17). La fuoriuscita dell'oro nero dal giacimento a causa della pressione naturale prende il nome di recupero primario (58. 一次采油 yīcì căiyóu) o diretto. I fattori che influenzano in larga parte l'estrazione dell'olio dalle rocce serbatoio sono la viscosità (35. 黏度 niándù), la densità (49. 石油密度 shíyóu mìdù) e la tensione superficiale (4. 表面张力 biăomiàn zhānglì) del petrolio stesso. Nei giacimenti ad alta temperatura e forti pressioni, queste tre proprietà hanno valori ridotti rispetto a quelli che presentano nelle condizioni atmosferiche di superficie, rendendo così più facile il movimento del liquido attraverso gli spazi delle rocce serbatoio. Più la quantità di gas disciolti nel petrolio è alta, più la viscosità e la tensione superficiale di quest'ultimo sono ridotte, permettendo agli idrocarburi di risalire facilmente dalla roccia nel tubo fino all'imboccatura spinti dalla pressione del gas o dell'acqua. Se, invece, il gas trova il modo di fuggire dalla soluzione, ad esempio a seguito di una riduzione di pressione, il volume del petrolio diminuisce e aumentano la viscosità, la densità e la tensione, che tendono a ostacolare l'estrazione del liquido. La tensione esistente tra l'acqua e il petrolio determina la capacità delle acque di spostare l'olio dalla roccia serbatoio durante le operazioni di estrazione. Quando durante lo sfruttamento di un giacimento si ha una diminuzione di pressione, il gas disciolto nell'acqua si libera dalla soluzione e si unisce al gas naturale estratto insieme al petrolio riducendone la viscosità. (Eni 1963, vol 2, pp ). In alcuni giacimenti, invece, la pressione idrostatica (25. 静水压 力 jìngshuĭ yālì) dell'acqua è la forza principale che regola e influenza la produzione di petrolio. In questi casi, la roccia è spesso molto permeabile e i fluidi presenti nel giacimento sono particolarmente sensibili alle differenze di pressione causate dall'acqua. A mano a mano che l'olio viene estratto, l'acqua risalendo gli strati, forza il petrolio residuo verso i pozzi, dai quali usciranno quantità di idrocarburi sempre più ridotte accompagnate da quantità di acqua sempre più elevate, al punto che alla fine della fase di produzione, i volumi di acqua estratta supereranno quelli degli idrocarburi. Il volume della parte di giacimento occupata dal petrolio si riduce mentre la pressione nel giacimento rimane costante. In altri casi, l'acqua può continuare ad avanzare nella roccia serbatoio ma a velocità differente rispetto a quella con la quale il petrolio e il gas si ritirano, causando così una riduzione della pressione del giacimento. In altri casi ancora, invece, le acque ai bordi del giacimento sono completamente 55

56 sigillate e la pressione idrostatica che possedevano in origine diminuisce rapidamente appena comincia l'estrazione dei fluidi, tanto da diventare sempre meno attive, a volte quasi ferme, via via che si procede con l'estrazione (Eni 1963, vol. 2, p. 636). Anche il grado di saturazione (3. 饱和 băohè) del greggio ha un ruolo importante nel recupero della materia prima. L'olio presente nei giacimenti può essere associato a quantità nulle o minime di gas, o a grandi quantità. Nel primo caso, la caduta di pressione conseguente l'apertura del pozzo provoca l'espansione dei gas presenti in soluzione, che muovendosi verso l'imbocco del pozzo trascinano anche il greggio. Il flusso di oro nero però si arresta quando tutti i gas sono sfuggiti, rendendo così possibile il recupero diretto di circa solo il 5% del petrolio presente. Nel secondo caso invece, l'espansione del gas presente in sommità fa scorrere il liquido nel pozzo, scacciandolo dai pori della roccia serbatoio e facilitandone il deflusso nel pozzo. Questo genere di giacimenti fornisce dal 20 al 40% del petrolio presente (Nicolazzi 2009, p. 121). Riassumendo, le forze che determinano il moto del petrolio e del gas attraverso le rocce serbatoio in direzione dei pozzi sono: la pressione del gas, la pressione delle acque marginali e la gravità. Oltre a queste però, vi sono altre forze naturali, tra le quali l'attrito, che contrastano il moto di uscita dei fluidi. Quando le forze di espulsione superano quelle contrarie, i fluidi si muovono verso i pozzi, ma via via che lo spostamento procede, le forze che lo causano decrescono gradualmente fino a raggiungere una condizione di equilibrio con le forze di natura contraria, portando all'arresto della fuoriuscita di olio. Nella maggior parte dei casi, tale condizione di equilibrio viene raggiunta quando la roccia serbatoio ha prodotto meno della metà dell'olio e del gas esistenti in essa (Eni 1963, vol 2, p. 635). Per estrarre il petrolio rimasto si utilizzano quindi dei metodi di recupero secondario (12. 二次采油 èrcì căiyóu). Tali sistemi comprendono la fratturazione (56. 压裂 yāliè), l'utilizzo di pompe (60. 油泵 yóubèng ) di varia tipologia, il metodo del gas-lift (37. 气举 qì jŭ) ovvero l'iniezione di gas compresso, o l'iniezione di acqua (69. 注水开采 zhùshuĭ kāicăi). Nel caso in cui il petrolio sia molto denso, occorre immettere nel pozzo un olio più leggero che agisce da fluidificante e ne facilita l'estrazione (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, p. 18). L'obiettivo di questi sistemi è aumentare la pressione del giacimento tramite l'iniezione di gas naturali, aria o acqua utilizzando appositi pozzi situati in modo da favorire lo spostamento del greggio verso i pozzi di estrazione. Terminate le operazioni di estrazione primaria e secondaria il greggio ricavato raramente supera il 50% di quello presente nel giacimento. Per cercare di aumentare ancora il recupero finale si 56

57 applicano processi di recupero assistito di olio, anche chiamati recuperi terziari (41. 三次采油 sāncì căiyóu) Tali processi possono essere termici, si innesca ad esempio la combustione in profondità di una parte dell'idrocarburo per ridurre la viscosità del petrolio e facilitarne il movimento verso i pozzi; chimici o prevedere l'iniezione di gas naturali o azoto (Enciclopedia degli idrocarburi, pp ). Non tutti i giacimenti si trovano sulla terraferma, molti infatti si sono formati nelle profondità marine. In questi casi si parla di perforazione offshore (19. 海上钻井 hăishàng zuānjĭng), ci si trova a operare in mare aperto e per estrarre petrolio è quindi necessario ricorrere all'impiego di specifici sistemi quali le navi di perforazione (72. 钻井船 zuānjĭngchuán) o apposite piattaforme (50. 石油平台 shíyóu píngtaí). La condizione necessaria in queste operazioni è che la testa del pozzo, ubicata sul fondale, sia collegata con l'impianto di perforazione, posto al di sopra del livello marino, in modo da garantire la circolazione del fango (Pieri 1988, p. 188). Le navi, controllate tramite sistemi di posizionamento satellitare, sono utilizzate nei casi in cui i fondali marini siano piuttosto profondi. Nel caso di più perforazioni, esse si riescono a spostare in tempi brevi nei diversi punti dell'area di operazione e tramite sofisticate tecnologie riescono a mantenersi immobili e a manovrare con precisione trivelle lunghe fino a circa 3 km, contrastando in due o tre secondi ogni piccolo movimento creato da onde, vento e correnti. Le piattaforme di perforazione sono di diversi tipi e vengono scelte a seconda delle caratteristiche del fondale, della profondità e delle condizioni climatiche. Nel caso in cui le operazioni siano condotte in acque poco profonde, si utilizzano delle piattaforme di perforazione jack-up (70. 自升式钻井平台 zìshēngshì zuănjĭng pĭngtái), nel caso in cui il giacimento si trovi a profondità più elevate, si utilizzano le piattaforme semisommergibili (1. 半潜式钻井平台 bànqiánshì zuănjĭng píngtái) (Rotolo 2011). Una volta completati i pozzi, le piattaforme di perforazione vengono sostituite con le piattaforme di produzione che possono essere piattaforme fisse (18. 固定平台 gùdìng píngtái) la cui struttura di sostegno poggia sul fondale marino, o piattaforme galleggianti, tra le quali la più utilizzata è la Tension leg platform (65. 张力腿平台 zhānglìtuĭ pĭngtái) che presenta ottime caratteristiche di stabilità in quanto viene fissata al fondale tramite dei cavi. Le prime sono utilizzate nel caso in cui il fondale non sia eccessivamente profondo, circa metri, mentre le seconde sono utilizzate su fondali a profondità relativamente elevata, che variano da 500 a 1200 metri (Enciclopedia degli idrocarburi, pp. 610, ). 57

58 Illustrazione 5: Piattaforma fissa (Campo petrolifero Vega) Illustrazione 6: Tension leg platform (Piattaforme di petrolio e idrocarburi) Appena estratto, il greggio subisce un processo di depurazione (24. 净化 jìnghuà) chimica poiché è misto a fango e altre impurezze. Prima di essere trasportato, l'oro nero viene immesso in grandi serbatoi di sedimentazione (7. 沉淀池 chéndiànchí) dove viene separato dai fanghi, dai frammenti di roccia e dall'acqua sospesi nel fluido. Infine, viene trasportato nelle raffinerie o via terra, mediante oleodotti (16. 管道 guăndào), autocisterne, cisterne ferroviarie, o via mare mediante navi petroliere (Sapere: Enciclopedia). 2. La raffinazione Il greggio che proviene dai pozzi di estrazione è un insieme di idrocarburi di vario peso molecolare e di miscele, spesso emulsionate, di olio, gas, acque saline, composti organici contenenti zolfo, azoto, ossigeno e tracce di metalli. La sua composizione varia notevolmente a seconda del giacimento di provenienza e dalla profondità alla quale si trova lo strato di petrolio. Per poter ottenere degli ottimi prodotti e non rovinare gli apparecchi utilizzati durante la raffinazione (29. 炼制 liànzhì), è opportuno che tutte queste sostanze vengano rimosse o convertite attraverso diversi trattamenti chimici. Agli inizi, si svolgevano delle semplici operazioni di distillazione (67. 蒸馏 zhēngliú) che permettevano di separare in frazioni l'idrocarburo per riscaldamento e classificare le frazioni ottenute a seconda del loro punto di ebollizione. Successivamente, a essa vennero affiancati i processi di raffinazione, il cui fine è eliminare le dannose impurezze presenti e ottenere prodotti 58

59 che per quantità e caratteristiche non sarebbe possibile ricavare con la semplice distillazione (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, pp ). Prima di essere immesso negli oleodotti, il petrolio estratto subisce una serie di trattamenti preliminari, quali il degasamento (53. 脱气 tuōqì), la disidratazione (54. 脱水 tuōshuĭ), la desolforazione (52. 脱硫 tuōliú) e la desalificazione (55. 脱盐 tuōyán). Tramite queste operazioni l'olio viene separato dal gas; dall'acqua; dall'idrogeno solforato, un gas tossico molto corrosivo; e dal cloruro di sodio, eventuali sedimenti presenti nel greggio come carbonati, solfati o cloruri di metalli pesanti. Inoltre, se le soluzioni saline non venissero eliminate, esse si ritroverebbero nel residuo di distillazione primaria alterandone l'impiego e i processi successivi. Dopo aver subito i vari trattamenti, il greggio viene stoccato in serbatoi cilindrici in acciaio in attesa di essere trasportato alle raffinerie (28. 炼油厂 liànyóuchăng). Lì l'idrocarburo viene lavorato, separando i diversi componenti chimici dai quali è costituito, e ottenendo miscele adatte al consumo finale (Petrolio, p. 9) tramite lo svolgimento di tre operazioni fondamentali che si succedono nel corso della lavorazione, ovvero la separazione per distillazione, il trattamento e la conversione. La distillazione frazionata (13. 分馏 fēnliú) è il primo processo al quale viene sottoposto l'oro nero ed è essenziale per scomporre l'idrocarburo in varie frazioni (32. 馏分 liúfèn), ovvero miscele di numerosi composti, dai quali ottenere prodotti semilavorati caratterizzati da diverso intervallo di ebollizione e maggiore omogeneità chimica e fisica, indispensabile per i trattamenti successivi. Tale frazionamento viene effettuato basandosi sulla volatilità (21. 挥发 huīfā) dei singoli componenti e permette di ricavare le quattro frazioni primarie ovvero gas e benzine, petrolio, gasoli e il residuo che non distilla. L'impianto di distillazione lavora in continuo ed è costituito da una serie di scambiatori di calore (20. 换热器 huànrèqì), un forno a tubi (17. 管式加热炉 guănshì jiārèlú), una colonna di frazionamento (14. 分馏塔 fēnliú tă) ovvero una colonna di distillazione a piatti (2. 板式塔 bănshìtă), alla quale sono collegate altre colonne di piccola dimensione, denominate colonne di stripping (38. 汽提塔 qìtítă), il cui compito è esaurire le frazioni laterali. Esistono due tipologie di colonne di frazionamento e la più usata è la colonna di distillazione a piatti, la cui altezza e il numero di piatti dipendono dalla quantità di frazioni che si vogliono ottenere, ma solitamente il numero oscilla da 35 a 50, e sono disposti a una distanza variabile tra i 45 e i 90 cm. Per quanto riguarda il processo di distillazione, in primo luogo, il greggio viene preriscaldato a circa 120 e vengono eliminati i cloruri di sodio, calcio e magnesio presenti nell'idrocarburo che 59

60 altrimenti corroderebbero le apparecchiature. Dopo un ulteriore riscaldamento a 220, il liquido viene pompato e fatto passare attraverso la serie di scambiatori di calore. In seguito, il greggio entra nel forno a tubi, ne esce alla temperatura di ebollizione, pari a circa 350 gradi, sotto forma di gas e tramite un collegamento dall'uscita del forno viene inviato nella colonna di frazionamento (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, p. 36). Rispetto al punto di introduzione del greggio la colonna si divide in due parti. La porzione di carica che resta liquida cade nella parte inferiore al punto in cui è stata introdotta, dove viene esaurita mediante iniezione diretta di vapore acqueo, mentre nella parte superiore avviene il frazionamento per condensazione delle varie frazioni, che salendo si raffreddano e condensano, cadendo sui piatti dove coesistono insieme al vapore. I vapori che non condensano passano al piatto superiore e cedono al liquido sul piatto parte del loro calore. In base a questo sistema, gli idrocarburi più pesanti, con punto di bollore più alto condensano subito depositandosi sul fondo, mentre le frazioni più leggere a cui corrispondono gli idrocarburi a basso punto di ebollizione vaporizzano, si uniscono ai restanti vapori non condensati e salgono verso i piatti superiori, sui quali si depositeranno una volta raffreddati e tornati allo stato liquido. Su ogni piatto si condensano i componenti le cui temperature di ebollizione sono simili alla temperatura del piatto stesso che decresce all'aumentare dell'altezza. In cima alla colonna la temperatura è di circa 110 gradi e lì si troveranno gli idrocarburi più leggeri costituiti da vapore acqueo e da gas incondensabili. Ai lati della colonna in corrispondenza di determinati piatti, si prelevano le frazioni che non essendo completamente esaurite, vengono inviate alle colonne di stripping, generalmente munite di 4 o 6 piatti e alimentate con vapore surriscaldato. Teoricamente si potrebbero prelevare tante frazioni laterali quanti sono i piatti, ma nella maggior parte dei casi, i prelievi sufficienti ai fini dei successivi trattamenti sono quattro: nafta, cherosene, gasolio leggero e gasolio pesante (Ibid, p. 40 e Eni p. 331). Sul fondo della colonna si raccolgono invece le frazioni più pesanti del greggio che hanno punti di bollore molti alti e dunque non raggiungo la loro temperatura di ebollizione. Per distillare tali composti, che prendono il nome di residuo primario, si ricorre alla distillazione sotto vuoto (66. 真空蒸馏 zhēnkōng zhēngliú). Questi impianti funzionano analogamente agli impianti di distillazione primaria ma operano a pressione ridotta e da essi si ricavano le frazioni destinate alla produzione di lubrificanti, e un ulteriore residuo, che può essere destinato alla produzione di bitumi, oli combustibili (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, p. 42). 60

61 Illustrazione 8: Schema del processo di distillazione frazionata (Fractional distillation) Le frazioni pesanti e i residui ottenuti dalla prima distillazione possono essere immessi direttamente sul mercato, mentre quelle più leggere non possono essere utilizzate subito come combustibili, ma devono essere sottoposte a ulteriori trasformazioni chimiche. Tali operazioni mirano a migliorare le caratteristiche chimico-fisiche dei semilavorati e ottenere i diversi prodotti finiti. Tra di esse troviamo la purificazione delle benzine, l'aggiunta di additivi, le miscelazioni e i lavaggi. Di particolare importanza sono i trattamenti di desolforazione che si effettuano sulle benzine, sul cherosene e sul gasolio, utilizzando metodi diversi a seconda delle caratteristiche del prodotto trattato (Sapere: Enciclopedia). Quasi tutti gli oli ottenuti dalla distillazione primaria sono poveri nei prodotti più leggeri che sono però i più richiesti. Per questo motivo si svolgono apposite operazioni che mirano a modificare le qualità delle frazioni liquide o gassose. Tali processi sono diversi a seconda del tipo di greggio lavorato e dei prodotti che si vogliono ottenere, tuttavia i principali sono il cracking, il reforming, l'isomerizzazione e l'alchilazione (Berti, Bartolo e Calatozzolo 1980, p. 66). Il cracking (30. 裂化 lièhuà) utilizza il calore per provocare la rottura delle molecole più complesse per formarne di più piccole e di conseguenza prodotti più leggeri. È così possibile produrre benzina rompendo le molecole più grosse del gasolio, aumentandone la quantità prodotta dalla distillazione primaria. Inoltre, tale processo è utilizzato per trasformare gli oli pesanti, di scarso valore commerciale e difficile utilizzo, in prodotti più leggeri e pregiati. Collegato al 61

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